giovedì 19 marzo 2020

CAPITOLO 7 - NERONE SI RIBELLA

Un giorno, ai primi di luglio del 1500, Nerone camminava su per il Borgo di Strada avvolto nei propri pensieri. Ultimamente Nerone si faceva vedere sempre più spesso in Arezzo, dove i Pantaneto possedevano due case dirimpetto alla chiesa di Sant’Antonio, vicino alla Porta di Santo Spirito.

E dire che non andava volentieri nemmeno a Monterchi, o ad Anghiari, o al Borgo Sansepolcro. Tra le case e le torri si sentiva opprimere, e le misere capanne dei borghi lo intristivano: vi aleggiava un tanfo così greve che al confronto nella sua stalla si annusava profumo. Ma aveva capito che le sorti della sua terra si decidevano in città. Lì doveva combattere la sua battaglia. Lì doveva farsi sentire.
E Nerone zitto non ci stava. Pagava, ma ad ogni balzello inveiva e protestava, reclamando i diritti delle sue fatiche. Più d’una volta era venuto alle mani, nella piazza pubblica, coi partigiani di Firenze.
Non riusciva a capire come si potesse star dalla parte dei Fiorentini, loro che sorvegliavano Arezzo dall’alto del Cassero, sotto la bandiera col giglio rosso e quella col leone guelfo che chiamavano Marzocco; loro che l’anno prima avevano impiccato l’infelice che non ne poteva più e s’era messo in testa di far la rivoluzione; loro che imponevano tasse e gabelle, soprattutto sul grano, di maniera tale che quel che ti lasciavano non bastava a sfamare chi quel ben di dio aveva prodotto; loro che sotto la veste dei pacificatori spadroneggiavano da cent’anni. Non poteva giustificare quelle famiglie aretine, guelfe per lo più, ma anche ghibelline dimentiche della fede dei padri, che dopo la compra di Arezzo del 1384 avevan dato il loro onore ai nuovi padroni, ricevendone o solo sperandone favori e benefici. Famiglie vecchie come gli Albergotti o nuove come i Tondinelli, che all’ombra del Giglio ingrandivano le loro fortune, usando senza scrupoli delazione e calunnia contro altri aretini, magari pure parenti, per ridurli in miseria ed accaparrarsi le loro fortune.
E gli esclusi da quei giochi sporchi, le vittime di tanta secolare prepotenza subivano in silenzio, cercando di resistere, ché a ribellarsi non c’era neanche da pensarci. E con che mezzi, poi? Con quali speranze? Il popolo grasso, i piccoli nobili e i mercanti erano divisi e impotenti. La plebe, povera e affamata, non potevi certo pretendere che si rivoltasse: quelli, la massa, stanno sempre coi soli da cui sperano pane, e cioè con chi comanda. I poveracci non sanno di Repubblica o Signoria.
Tutto questo rimuginava tra sé Nerone mentre saliva all’ufficio del Commissario fiorentino all’Annona. Terminata la mietitura, era venuto il momento di pagare il balzello più grosso dell’anno, e voleva veder d’ottenere uno sconto sulla quota di raccolto da conferire.
Potenza evocativa dei pensieri: alzati gli occhi, vide venirgli incontro, a cavallo, Francesco di Cocchi degli Albergotti, uno che conosceva bene, e su cui in varie occasioni aveva sfogato la forza delle sue mani. Si avvicinava protetto da alcuni armati con le insegne del Giglio, i quali occupavano in tutta la sua larghezza il Borgo di Strada. Al suo fianco proprio il Commissario all’Annona. Gli si arrestarono davanti.
«Venivamo giusto da voi, messer Antonio» lo apostrofò l’Albergotti vestendo d’antipatia il suo annuncio.
Ai figli talvolta si ripresenta la storia dei genitori. Nerone in quel momento rivide la scena della morte di suo padre.
«Temo che dovrete rimandar la visita, qualunque ne sia il motivo». Rispose, spostandosi in mezzo alla via, proprio davanti al cavallo di Francesco. «Come vedete, adesso non sono in casa».
L’Albergotti ignorò il suo tono sprezzante: «Ci dicono che ultimamente curate poco i vostri campi. Per fortuna avete un bravo fattore. Sembra che anche senza di voi le terre lungo il Cerfone diano un ottimo raccolto, quest’anno».
Nerone serrò i pugni: «Non sono cose di vostro interesse. Ho sempre pagato la mia parte»
«Allora non sarete dispiaciuto se un notaro del Comune farà visita al vostro granaio».
La mano di Nerone afferrò il morso del cavallo: «Chi di voi è il Commissario, eh? Vi hanno nominato esattore, per caso?»
«Il grano serve in città, lo sapete. Il popolo ha fame»
«Il mio grano andrà a Firenze, ecco quello che so, e non sfamerà neanche un aretino. Forse il vostro resterà in città, ma di certo non uscirà dalle vostre dispense, vigliacco d’un traditore!»
L’Albergotti cercò di richiamare le briglie a sé, ma con una mossa improvvisa Nerone strattonò il morso del cavallo verso terra, sbilanciando in avanti il cavaliere. Poi una violenta torsione di lato costrinse l’animale ad uno scarto così brusco che Francesco volò rovinosamente nella polvere. Gli armati scattarono in avanti ma Nerone lasciò andare il cavallo scosso, il quale, trovandosi circondato, prese a girare su se stesso e a scalpitare, scombinando anche i movimenti delle altre.
Nerone non s’era mosso d’un passo. Alla fine smontarono e gli furono addosso. Tentarono d’immobilizzarlo ma lui si difese con furia. Stava addirittura per avere la meglio quando lo stocco dell’Albergotti, rosso in viso per l’umiliazione subita, lo raggiunse ad un fianco. Il balenio della lama, un attimo prima del colpo, gli consentì di schivare di quel tanto che bastò per esser preso solo di striscio. Piegò un ginocchio e portò le mani alla ferita. I soldati si fermarono e finalmente il Commissario intervenne: «Ora basta! Non siamo qui per uccidervi, ma non dimenticate che la fine dei ribelli è la corda. Ci rivedremo presto».
Il drappello si ricompose. Francesco guardò con odio il ferito, che s’era già rialzato e restava in mezzo alla via, a sfidarli mentre si allontanavano.

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