Un giorno, ai primi di luglio del 1500, Nerone camminava su per il Borgo di Strada avvolto nei propri pensieri. Ultimamente Nerone si
faceva vedere sempre più spesso in Arezzo, dove i Pantaneto possedevano due case
dirimpetto alla chiesa di Sant’Antonio, vicino alla Porta di Santo Spirito.
E dire che non andava
volentieri nemmeno a Monterchi, o ad Anghiari, o al Borgo Sansepolcro. Tra le
case e le torri si sentiva opprimere, e le misere capanne dei borghi lo
intristivano: vi aleggiava un tanfo così greve che al confronto nella sua
stalla si annusava profumo. Ma aveva capito che le sorti della sua terra si
decidevano in città. Lì doveva combattere la sua battaglia. Lì doveva farsi
sentire.
E Nerone zitto non ci
stava. Pagava, ma ad ogni balzello inveiva e protestava, reclamando i diritti
delle sue fatiche. Più d’una volta era venuto alle mani, nella piazza pubblica,
coi partigiani di Firenze.
Non riusciva a capire
come si potesse star dalla parte dei Fiorentini, loro che sorvegliavano Arezzo
dall’alto del Cassero, sotto la bandiera col giglio rosso e quella col leone
guelfo che chiamavano Marzocco; loro che l’anno prima avevano impiccato
l’infelice che non ne poteva più e s’era messo in testa di far la rivoluzione;
loro che imponevano tasse e gabelle, soprattutto sul grano, di maniera tale che
quel che ti lasciavano non bastava a sfamare chi quel ben di dio aveva
prodotto; loro che sotto la veste dei pacificatori spadroneggiavano da
cent’anni. Non poteva giustificare quelle famiglie aretine, guelfe per lo più,
ma anche ghibelline dimentiche della fede dei padri, che dopo la compra di
Arezzo del 1384 avevan dato il loro onore ai nuovi padroni, ricevendone o solo
sperandone favori e benefici. Famiglie vecchie come gli Albergotti o nuove come
i Tondinelli, che all’ombra del Giglio ingrandivano le loro fortune, usando
senza scrupoli delazione e calunnia contro altri aretini, magari pure parenti,
per ridurli in miseria ed accaparrarsi le loro fortune.
E gli esclusi da quei
giochi sporchi, le vittime di tanta secolare prepotenza subivano in silenzio,
cercando di resistere, ché a ribellarsi non c’era neanche da pensarci. E con
che mezzi, poi? Con quali speranze? Il popolo grasso, i piccoli nobili e i
mercanti erano divisi e impotenti. La plebe, povera e affamata, non potevi
certo pretendere che si rivoltasse: quelli, la massa, stanno sempre coi soli da
cui sperano pane, e cioè con chi comanda. I poveracci non sanno di Repubblica o
Signoria.
Tutto questo rimuginava
tra sé Nerone mentre saliva all’ufficio del Commissario fiorentino all’Annona.
Terminata la mietitura, era venuto il momento di pagare il balzello più grosso
dell’anno, e voleva veder d’ottenere uno sconto sulla quota di raccolto da
conferire.
Potenza evocativa dei
pensieri: alzati gli occhi, vide venirgli incontro, a cavallo, Francesco di
Cocchi degli Albergotti, uno che conosceva bene, e su cui in varie occasioni
aveva sfogato la forza delle sue mani. Si avvicinava protetto da alcuni armati
con le insegne del Giglio, i quali occupavano in tutta la sua larghezza il
Borgo di Strada. Al suo fianco proprio il Commissario all’Annona. Gli si
arrestarono davanti.
«Venivamo giusto da voi,
messer Antonio» lo apostrofò l’Albergotti vestendo d’antipatia il suo annuncio.
Ai figli talvolta si
ripresenta la storia dei genitori. Nerone in quel momento rivide la scena della
morte di suo padre.
«Temo che dovrete
rimandar la visita, qualunque ne sia il motivo». Rispose, spostandosi in mezzo
alla via, proprio davanti al cavallo di Francesco. «Come vedete, adesso non
sono in casa».
L’Albergotti ignorò il
suo tono sprezzante: «Ci dicono che ultimamente curate poco i vostri campi. Per
fortuna avete un bravo fattore. Sembra che anche senza di voi le terre lungo il
Cerfone diano un ottimo raccolto, quest’anno».
Nerone serrò i pugni:
«Non sono cose di vostro interesse. Ho sempre pagato la mia parte»
«Allora non sarete
dispiaciuto se un notaro del Comune farà visita al vostro granaio».
La mano di Nerone afferrò
il morso del cavallo: «Chi di voi è il Commissario, eh? Vi hanno nominato
esattore, per caso?»
«Il grano serve in città,
lo sapete. Il popolo ha fame»
«Il mio grano andrà a
Firenze, ecco quello che so, e non sfamerà neanche un aretino. Forse il vostro
resterà in città, ma di certo non uscirà dalle vostre dispense, vigliacco d’un
traditore!»
L’Albergotti cercò di
richiamare le briglie a sé, ma con una mossa improvvisa Nerone strattonò il
morso del cavallo verso terra, sbilanciando in avanti il cavaliere. Poi una
violenta torsione di lato costrinse l’animale ad uno scarto così brusco che Francesco
volò rovinosamente nella polvere. Gli armati scattarono in avanti ma Nerone
lasciò andare il cavallo scosso, il quale, trovandosi circondato, prese a
girare su se stesso e a scalpitare, scombinando anche i movimenti delle altre.
Nerone non s’era mosso
d’un passo. Alla fine smontarono e gli furono addosso. Tentarono
d’immobilizzarlo ma lui si difese con furia. Stava addirittura per avere la meglio
quando lo stocco dell’Albergotti, rosso in viso per l’umiliazione subita, lo raggiunse
ad un fianco. Il balenio della lama, un attimo prima del colpo, gli consentì di
schivare di quel tanto che bastò per esser preso solo di striscio. Piegò un
ginocchio e portò le mani alla ferita. I soldati si fermarono e finalmente il
Commissario intervenne: «Ora basta! Non siamo qui per uccidervi, ma non
dimenticate che la fine dei ribelli è la corda. Ci rivedremo presto».
Il drappello si
ricompose. Francesco guardò con odio il ferito, che s’era già rialzato e
restava in mezzo alla via, a sfidarli mentre si allontanavano.
Nessun commento:
Posta un commento