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Quella
che gli abitanti della zona chiamavano via d’Arezzo e gli Aretini via di Rimini
li portò dritti fin sotto le mura: la Porta di San Biagio effettivamente era
sbarrata. I tre percorsero un tratto della lizza, oltrepassarono la Porta di
Stufo e si presentarono alla piccola Porta di Pózzolo, in corrispondenza della
nuova chiesa dei domenicani.
«Conosco
il capoposto» assicurò Pietro.
Alcuni
grossi d’argento passarono nelle mani del soldato e i nostri entrarono.
Affidati i cavalli alla guarnigione, corsero fino ai ruderi dell’antico Foro.
«Come
faremo ad entrare nella Cittadella?»
«Non
lo so, figliolo, qualcosa inventeremo».
S’acquattarono
al riparo d’un muretto orlato d’erbacce, resto d’una parete dell’antico macellum.
Il
popolo chiamava Cittadella un fortilizio interno alle mura, nominato nelle
carte come castrum marchionis, costruito sul colle più alto chissà
quando prima del Mille da chissà quale Marchese di Toscana, per difendere i
rettori della città dalle frequenti sommosse dei loro amministrati piuttosto
che dai nemici esterni.
Ai
nostri quelle mura sembravano impenetrabili e non pareva vi fosse modo
d’entrare. Ma Pietro vide Tarlato di Pietramala salire dal Borgo Maestro, e lo
chiamò.
Quello
si sorprese: «I Mauri!? Che fate nel Foro? Perché vi nascondete?»
Pietro
spiegò rapidamente la situazione e il Tarlati mugugnò: «Lasciate fare a me».
Salì alla Cittadella.
«Vi
fidate di lui?» chiese Oddo.
«Non
abbiamo scelta. Dobbiamo correre il rischio».
Lo
videro confabulare con le guardie e dopo un po’ dalla porta uscì il Capitano
del Popolo.
«Che
vi dicevo? Ci ha venduti!»
«Fermi,
state giù!»
Ma,
potenza della casata, alla richiesta di Tarlato il Capitano del Popolo non oppose
difficoltà. La porta si richiuse per riaprirsi poco dopo. Apparve la Berta
seguita da suo padre, legati con le mani dietro la schiena. S’avviarono timorosi
e incerti in direzione della Cattedrale e poi, appena fuori dalla vista degli
armati di Cittadella, il Tarlati li sospinse tra i ruderi del Foro.
Il
coltello di Oddo recise le corde e i due giovani s'abbracciarono, mentre Bencio
si strofinava i polsi dolenti. Pietro li incalzò: «Presto, togliamoci di qua! E
a voi, Tarlato, tutta la nostra riconoscenza»
«Niente,
niente. So che non sono traditori. Voi, piuttosto» indicò la destra mutilata di
Pietro, protetta da una ciroteca di cuoio, simile nella foggia al guanto
militare detto manopola, che non calzava le singole dita ma tutta insieme la
mano, tenendone separato il solo pollice. «La spedizione del Toppo vi ha messo
fuori dalle battaglie, ma il vostro figliolo mi sembra bello robusto».
Mauro
si sentì gelare.
«O
il rampollo» proseguì Tarlato fissando gelido il ragazzo, «è valido solo per
salvare belle popolane?»
C’era
del disprezzo nell’occhiata che lanciò non alla Berta, bensì a suo padre:
quanti mercanti miravano a guadagnar titoli mediante nozze ben combinate!
Mauro
avvampò e fece per reagire, ma il Pietramala lo ignorò: «M’hanno detto che ha
dato prova di valore, a San Donato in Collina. Sarà dunque dei nostri!»
Istintivamente
la Berta s’era fatta più vicina al suo uomo, come se con quel gesto potesse
impedire al Tarlati di prenderglielo, proprio nel giorno che li doveva veder
promessi. “Non oggi, no!” s’arrabbiò in cuor suo, “Piuttosto torno prigioniera!”
Stava
per dirlo, ma Pietro l’anticipò: «Avrebbe voluto, certo» assicurò mentendo,
«anche se noi Mauri non vediamo di buon occhio una guerra tra Aretini».
La
precisazione, con quel noi Mauri che rendeva alla casata un orgoglio ben
maggiore della sua effettiva importanza, spiazzò il suo interlocutore. Era come
dirgli: “Ti siamo grati per il tuo aiuto, ma sappi che la pensiamo
diversamente!”
«Purtroppo
ce lo impedisce un altro incarico, di cui siamo gravati a partire proprio da
oggi e fino alla prossima Pasqua». Mauro attese speranzoso. «Quest’anno tocca
alla nostra famiglia assicurare il picchetto d’onore a Campoleone, ed io come
sapete non ho altri figli cui affidare questo santo e nobile ufficio».
Dopo
l’assalto all’Abbazia, nei primi anni del secolo che volgeva al termine, le
famiglie nobili della zona avevano preso l’usanza di formare a turno un
picchetto armato per montare la guardia, accompagnare le processioni,
presenziare alle cerimonie: un modo per dire al Comune che i monaci, privati
del loro feudo, restavano comunque sotto la protezione della nobiltà locale. Al
principio il picchetto era nutrito e funzionava per l’intero anno, ma con
l’andar del tempo s’era ridotto ad un ufficio simbolico, che si rinnovava
appunto dal giorno dell’Annunciazione fino a Pasqua. Nella foga degli
avvenimenti, Mauro se n’era perfino dimenticato.
«Uhmm»
Tarlato ebbe un gesto di stizza: a certi impegni neppure un potente poteva
sottrarsi. Considerò che per tale incarico era sufficiente anche Pietro con la
sua mutilazione, ma l’Abate di Campoleone era permaloso e teneva oltremodo a
quell’usanza. «D’accordo» consentì infine, «non mancheranno occasioni per
saggiare il suo effettivo valore. Andate, ora, ché non vi vedano!»
Non
se lo fecero dire due volte! Quasi di corsa tornarono alla Porta di Pòzzolo,
dove il capoposto, secondo i patti, aveva procurato altri due cavalli e li fece
prontamente uscire.
Un
altro ringraziamento e misero gli animali al galoppo, di nuovo sulla via di
Rimini. I due giovani erano felici e i loro occhi se lo ripeterono mille volte,
nella polvere sollevata dagli zoccoli. Alla Pieve di Classe la festa continuava
ma non se ne curarono, proseguendo di slancio fino a Muciafora.
La
Ilde stavolta non era al davanzale. Se il suo Pietro voleva una cosa trovava
sempre il modo di ottenerla e quando li aveva visti partire era tornata a casa
e s’era messa di lena ad organizzare il banchetto. Questione di qualche ora,
pensava, e torneranno con la promessa sposa.
Quando
li sentì arrivare, sollecitò il lavoro delle donne: «Su, su! Saranno stanchi, e
di sicuro affamati!»
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