giovedì 16 aprile 2020

CAPITOLO 23 - LA RIVOLTA


«Vi dirò io, Aretini, cos’accade!»
«Silenzio, gente! Sentiamo cosa dice messer Visdomini».
Il Commissario, confidando di venire a capo della rivolta in poco tempo, aveva fatto chiudere le Porte della città, così da impedire la fuga ai ribelli. La voce d’un così grave provvedimento s’era sparsa in un lampo insieme a quella dell’arresto di Nerone, e non se ne sapeva il motivo.

Rabbia curiosità timore incertezza spingono la gente a radunarsi: il numero, si sa, è la forza dei deboli. In breve lo spiazzo interno alla sbarrata Porta di Santo Spirito s’era riempito d’una folla vociante, dalla quale si alzavano domande e congetture che si rincorrevano, accavallandosi e mulinando come un vortice di polvere agitato da un’improvvisa folata di maestrale.
Sopra di loro e sopra la Porta, una Madonna di pietra, in piedi, sosteneva il Bambino benedicente. Un cavallo inalberato, antico simbolo della libertà aretina, anch’esso scolpito nel sasso, incitava alla rivolta.
«Messere! Reverendo! Padrone! Venite, venite a vedere!»
Messer Visdomini se ne stava seduto a tavola in attesa che gli fosse portata la zuppa, e i richiami della fantesca l’avevano scosso dai suoi pensieri, che eran tanti e grossi: la cattura di Nerone sconvolgeva i piani d’una rivolta in cui non aveva mai veramente creduto, ma per la riuscita della quale pregava in segreto. Se ne sentiva partecipe, nonostante ogni ragionamento nella sua testa si tingesse di scetticismo. Ora che la congiura era scoperta bisognava pensare alla salvezza di coloro che vi eran coinvolti. Ma cosa fare? Consigliarli di rifugiarsi a Siena o mandarli da Vitellozzo a Città di Castello? Accidenti, neanche lui aveva previsto un caso simile! Che ingenuità!
 «Che c’è, benedetta donna? Sempre alla finestra! Sempre a curiosare ed impicciarvi degli affari altrui»
«Venite, vi dico. C’è gente! Sentite che dicono»
La curiosità è contagiosa.
«Gente? Alla Porta?»
«L’hanno chiusa, guardate»
Dalla finestra di casa Visdomini si vedevano bene i battenti serrati, e lo schieramento della guardia fiorentina.
«Per la testa di san Donato!»
Il prete era sceso di corsa. Già per le scale l’onda delle voci gli aveva portato le paure e i malumori della folla. Aveva capito subito che non c’era chi si sapesse raccapezzare: le spiegazioni più fantasiose e improbabili venivano buttate là, trovando immediato credito per essere smentite subito dopo, soppiantate da altre ancora più assurde, con l’unico risultato di far montare il panico. Nelle occhiaie scavate dalla fame comparivano lampi di paura e le labbra rinsecchite dagli stenti restavano socchiuse e incerte.
Nessuno riusciva a trovare un collegamento tra l’arresto di Nerone e l’inaudito provvedimento della chiusura delle Porte, e soprattutto nessuno pareva conoscere il motivo né di quella cattura né di questa serrata.
Mentre usciva sulla piazza l’istinto, più del ragionamento, gli suggerì che quella folla stranita poteva esser la salvezza dei congiurati. D’un balzo salì sulla stanga d’un carro imprigionato nella ressa.
«Gente d’Arezzo!»
In città ci si conosceva tutti e Presentino non era certo tra gli ultimi. Al suo richiamo le discussioni di quelli più vicini si smorzarono, lo schiamazzo perse pian piano vigore in tutta la piazza e gli occhi s’appuntarono sul prete: era ora che qualcuno d’autorità fornisse chiarimenti. Presentino lanciò un’occhiata al cavallo che sormontava la Porta ed una rapida invocazione alla Madonna.
«Fratelli! Un’ora più buia di questo cielo scuro è arrivata! Prima han chiuso in Fortezza un membro del Collegio, contro ogni regola, ed ora ci fanno tutti prigionieri!»
«Di Nerone s’è saputo, e le Porte chiuse si vedono!». Distante pochi passi, un omone robusto, una spanna più alto di tutti, con un grembiule sudicio di sangue rappreso e un coltellaccio da macellaio brandito come una spada, prometteva sfracelli: «Ma il perché, ce lo sapete dire?»
Se arringhi una folla, non devi permettere che un altro ti rubi la tribuna. Presentino sapeva predicare e rintuzzò il brusio provocato dalle parole del beccaio.
«I grani!»
Centro! Si stupì lui per primo d’averlo detto, ma poteva non aggiungere altro. Quella parola impose sulla gente un silenzio greve e ne piegò le spalle. Chi dei presenti non aveva maledetto cento volte l’azione di rapina dei Fiorentini? Chi non avrebbe volentieri incendiato i carri che ogni giorno s’allontanavano sulla via di Vallelunga, verso la Dominante, carichi dei cereali, delle carni, dei pesci, delle verdure che avrebbero dovuto sfamare i figli degli Aretini?
Fin lì la rassegnazione era aumentata di pari passo col pallore delle guance sempre più vizze e col vuoto delle pupille che seguivano impotenti l’allontanarsi di quelle carovane. Fin lì.
«I grani, ecco il motivo». Presentino non ebbe più bisogno di gridare. «Nerone s’è opposto in Collegio alla partenza di altre derrate. Nerone ha detto che non si devono far morire di fame gli Aretini. Nerone ha chiesto giustizia per la sua gente».
Un mormorio ammirato tornò a muovere la folla: infine qualcuno c’era, a difenderli!
«Ma perché chiudere le Porte?»
Il beccaio ci aveva messo un po’ prima di realizzare che la spiegazione del prete non gli bastava. Era corso in piazza arrabbiato e smanioso di menar le mani. Di carne ne vendeva poca, da un pezzo, e di soprusi non ne poteva più. Da mesi la sera, in casa, prometteva alla moglie e ai figlioli che avrebbe fatto giustizia, che se tutti eran codardi lui il coraggio di sgozzare i Fiorentini ce l’aveva e l’avrebbe fatto vedere, a quei nobili rammolliti che subivano in silenzio o peggio strisciavano come serpi. Era corso in piazza alle prime voci ed ora voleva vederci chiaro.
«Perché ci saranno altri arresti, ecco perché! Quelli del Collegio sono quasi tutti con Nerone»
«Anche noi! Anche noi!» si gridò dalla folla stretta attorno al palco improvvisato.
«Tutti siamo prigionieri, tutti in pericolo! E solo perché vogliamo mangiare!»
«E i Priori, che fanno? Il Gonfaloniere, che dice?» Il coltello del macellaio disegnava in aria minacciose traiettorie.
«Al Palazzo!» gridò una donna.
«Giusto! Che si fa qui!? Tutti al Palazzo dei Priori!».
Un’onda di teste cominciò a muovere su per il Borgo di Strada, prima scomposta e poi più concorde e decisa, ingrossata man mano da nuova gente che affluiva dai vicoli e dalle contrade. Pareva che ciascuno aspettasse quel segnale e che tutti gli Aretini fossero ora per strada. Ogni uomo impugnava un arnese che all’occorrenza poteva servir da arma, perché non si sa mai. Le spalle eran tornate dritte: improvvisamente i Fiorentini non facevano più paura.
Nei volti dei soldati alla Porta lo sconcerto provocato dal crescere dell’assembramento inatteso, e per affrontare il quale non avevano ordini, lasciò posto al sollievo per non aver dovuto sostenere uno scontro dall’esito incerto contro la folla inferocita.
Presentino per parte sua osservò con soddisfazione la piazza svuotarsi: dalla propria arringa non poteva aspettarsi esito migliore. Adesso poteva rientrare in casa. La sua parte l’aveva fatta, ed era ora di desinare. Toccava ad altri mettersi alla testa di quella massa di disperati. In fondo, guidare una sommossa non è affar da preti. Alzò di nuovo gli occhi con fiducia al cavallo e con gratitudine alla Madonna che sorvegliavano la Porta.
Poi saltò giù dal carro per tornare a mettersi a tavola, ma quando fu sul portone di casa lo bloccarono gli inconfondibili rintocchi della Campana Pubblica.
«All’arme! all’arme!» comandava l’imperioso batacchio. «All’arme! all’arme!» ripeteva incessante, e l’ordine si sparse sui tetti, rotolò per le vie, s’insinuò nelle case e ne cacciò gli ultimi incerti. Comparirono spade e picche nascoste chissà dove, e tuonò perfino qualche archibugio.
«All’arme! all’arme!» martellava nelle orecchie dei partigiani fiorentini, su nella parte alta della città, sorpresi al principio e disorientati, atterriti ben presto dalla vendetta minacciata da quei rintocchi. Un frettoloso girar di chiavistelli, un affannoso tirar di catorci, uno sferragliar di spranghe sbarravano i portoni dei Tondinelli, degli Albergotti, dei Cocchi, e delle famiglie che fino ad allora avevan tratto profitto dall’occupazione fiorentina.
Anche il Visdomini dalla soglia di casa sua sentì chiavi girare e cigolar di cardini, ma voltandosi alla Porta di Santo Spirito sorrise: l’impaurita guarnigione aveva deciso di riaprirla. Ad ogni buon conto, aveva pensato il prudente capo posto dando ordine agli uomini di rientrare nel corpo di guardia, meglio evitare guai maggiori. La piazza si stava infatti nuovamente riempiendo di popolo.
Molti di quelli che stavano salendo verso il Palazzo dei Priori, fermatisi al suono inaspettato della Campana e incerti su come interpretarlo e sul da farsi, avevano deciso di tornare dove poco prima qualche spiegazione l’avevano avuta. In quel momento, da sotto l’arco della Porta, entrò in città Nofrio Roselli, a cavallo e con un suo figlio in groppa, senza che nessuno provasse a fermarli.
Presentino gli si fece incontro. Era destino che quel giorno saltasse il desinare.
«Ero in campagna. Ho sentito la Campana. Che succede?» cercò d’informarsi Nofrio senza smontare.
«Guardate da voi! Il trattato è scoperto, Nerone arrestato, ma il popolo è con noi!»
La folla faceva calca intorno al cavallo.
Il Roselli capì la situazione e cosa convenisse fare. Buttò da una parte prudenza e paure e, così a cavallo come si trovava, attaccò ad incitare la gente: «E’ l’ora! E’ il momento! Tutti con me! Basta coi soprusi! Difendiamo Arezzo e noi stessi! Prendete le armi e seguitemi!»
Una selva di picche bastoni asce coltelli si levò insieme a grida bellicose, e le donne non eran da meno degli uomini.
Nel marasma Nofrio s’abbassò verso il prete: «Sì, ma che suggerite? Dove li porto? Io arrivo ora».
Presentino voleva ribattere che neanche lui sapeva cosa fosse successo al Palazzo dei Priori per dar voce alla Campana, quando arrivò di corsa un gruppo di giovani ai comandi del fratello minore di Nerone, che si chiamava Luca ma tutti conoscevano come lo Stivalino. Si fecero largo e raggiunsero il cavallo che il Roselli faticava a tenere a freno in mezzo a tanta ressa.
«Al Palazzo di Giustizia!» urlò lo Stivalino rivolto a Nofrio ma per farsi sentire da tutti. «Il Commissario fiorentino è ancora lì ed è lui che tiene Nerone! Prendiamo il Commissario! Liberiamo Nerone!»
L’eccitazione della folla salì al massimo.
«Libertà per Nerone!» gridavano tutti.
Ora Nofrio sapeva cosa fare: «Al Palazzo di Giustizia!»
Di nuovo l’onda scomposta delle teste s’allungò su per il Borgo di Strada, seguendo il cavallo dei Roselli, il piccolo Stivalino e il beccaio scalmanato. Presentino corse invece a casa. Gli era venuta un’idea diversa. Si precipitò in cantina, spostò una botticella piena, si mise a grattare con le unghie uno strato di terra umida dall’angolo dell’impiantito fino a scoprire un lastrone di pietra, lo sollevò e dal piccolo nascondiglio recuperò una robusta cassa. Un attimo dopo nella sua mano comparve un fodero d’acciaio ben lucidato, dal quale estrasse una lama di stupenda fattura. Era un prete, certo, ma se la Campana chiamava all’arme… e poi se gli fosse riuscito il colpo che stava meditando… di sicuro il Roselli s’illudeva pensando che il Commissario fosse ancora al Palazzo di Giustizia.
Tornò fuori di corsa, giusto in tempo per agganciare l’ultimo gruppetto di popolani urlanti e armati alla peggio.
«Venite con me!»
Avete mai provato a rifiutare l’ordine d’un prete armato di spada e con l’aria di saperla usare? Lo seguirono per la fitta rete di stradine che fiancheggia il Borgo di Strada, senza neanche chiedere dove li conducesse.
In verità Presentino aveva ragione, al Palazzo di Giustizia non c’era più né il Commissario né il Capitano. Tra il Palazzo e la Porta di Santo Spirito ci saranno stati seicento passi al massimo ma le notizie corrono più delle gambe. Visto come si mettevano le cose, le autorità fiorentine e i cittadini con loro compromessi non s’erano fidati di spranghe e chiavistelli, ritenendo più sicuro rifugiarsi in fretta nella Cittadella fortificata.

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