«Vi dirò io, Aretini, cos’accade!»
«Silenzio, gente! Sentiamo cosa dice messer Visdomini».
Il Commissario,
confidando di venire a capo della rivolta in poco tempo, aveva fatto chiudere
le Porte della città, così da impedire la fuga ai ribelli. La voce d’un così
grave provvedimento s’era sparsa in un lampo insieme a quella dell’arresto di
Nerone, e non se ne sapeva il motivo.
Rabbia curiosità
timore incertezza spingono la gente a radunarsi: il numero, si sa, è la forza
dei deboli. In breve lo spiazzo interno alla sbarrata Porta di Santo Spirito
s’era riempito d’una folla vociante, dalla quale si alzavano domande e
congetture che si rincorrevano, accavallandosi e mulinando come un vortice di
polvere agitato da un’improvvisa folata di maestrale.
Sopra di loro e
sopra la Porta, una Madonna di pietra, in piedi, sosteneva il Bambino benedicente.
Un cavallo inalberato, antico simbolo della libertà aretina, anch’esso scolpito
nel sasso, incitava alla rivolta.
«Messere!
Reverendo! Padrone! Venite, venite a vedere!»
Messer Visdomini
se ne stava seduto a tavola in attesa che gli fosse portata la zuppa, e i
richiami della fantesca l’avevano scosso dai suoi pensieri, che eran tanti e
grossi: la cattura di Nerone sconvolgeva i piani d’una rivolta in cui non aveva
mai veramente creduto, ma per la riuscita della quale pregava in segreto. Se ne
sentiva partecipe, nonostante ogni ragionamento nella sua testa si tingesse di
scetticismo. Ora che la congiura era scoperta bisognava pensare alla salvezza
di coloro che vi eran coinvolti. Ma cosa fare? Consigliarli di rifugiarsi a
Siena o mandarli da Vitellozzo a Città di Castello? Accidenti, neanche lui
aveva previsto un caso simile! Che ingenuità!
«Che c’è, benedetta donna? Sempre alla
finestra! Sempre a curiosare ed impicciarvi degli affari altrui»
«Venite, vi
dico. C’è gente! Sentite che dicono»
La curiosità è
contagiosa.
«Gente? Alla
Porta?»
«L’hanno chiusa,
guardate»
Dalla finestra
di casa Visdomini si vedevano bene i battenti serrati, e lo schieramento della
guardia fiorentina.
«Per la testa di
san Donato!»
Il prete era
sceso di corsa. Già per le scale l’onda delle voci gli aveva portato le paure e
i malumori della folla. Aveva capito subito che non c’era chi si sapesse
raccapezzare: le spiegazioni più fantasiose e improbabili venivano buttate là,
trovando immediato credito per essere smentite subito dopo, soppiantate da
altre ancora più assurde, con l’unico risultato di far montare il panico. Nelle
occhiaie scavate dalla fame comparivano lampi di paura e le labbra rinsecchite
dagli stenti restavano socchiuse e incerte.
Nessuno riusciva
a trovare un collegamento tra l’arresto di Nerone e l’inaudito provvedimento
della chiusura delle Porte, e soprattutto nessuno pareva conoscere il motivo né
di quella cattura né di questa serrata.
Mentre usciva
sulla piazza l’istinto, più del ragionamento, gli suggerì che quella folla
stranita poteva esser la salvezza dei congiurati. D’un balzo salì sulla stanga
d’un carro imprigionato nella ressa.
«Gente
d’Arezzo!»
In città ci si
conosceva tutti e Presentino non era certo tra gli ultimi. Al suo richiamo le
discussioni di quelli più vicini si smorzarono, lo schiamazzo perse pian piano
vigore in tutta la piazza e gli occhi s’appuntarono sul prete: era ora che
qualcuno d’autorità fornisse chiarimenti. Presentino lanciò un’occhiata al
cavallo che sormontava la Porta ed una rapida invocazione alla Madonna.
«Fratelli!
Un’ora più buia di questo cielo scuro è arrivata! Prima han chiuso in Fortezza
un membro del Collegio, contro ogni regola, ed ora ci fanno tutti prigionieri!»
«Di Nerone s’è
saputo, e le Porte chiuse si vedono!». Distante pochi passi, un omone robusto,
una spanna più alto di tutti, con un grembiule sudicio di sangue rappreso e un
coltellaccio da macellaio brandito come una spada, prometteva sfracelli: «Ma il
perché, ce lo sapete dire?»
Se arringhi una
folla, non devi permettere che un altro ti rubi la tribuna. Presentino sapeva
predicare e rintuzzò il brusio provocato dalle parole del beccaio.
«I grani!»
Centro! Si stupì
lui per primo d’averlo detto, ma poteva non aggiungere altro. Quella parola
impose sulla gente un silenzio greve e ne piegò le spalle. Chi dei presenti non
aveva maledetto cento volte l’azione di rapina dei Fiorentini? Chi non avrebbe
volentieri incendiato i carri che ogni giorno s’allontanavano sulla via di
Vallelunga, verso la Dominante ,
carichi dei cereali, delle carni, dei pesci, delle verdure che avrebbero dovuto
sfamare i figli degli Aretini?
Fin lì la
rassegnazione era aumentata di pari passo col pallore delle guance sempre più
vizze e col vuoto delle pupille che seguivano impotenti l’allontanarsi di quelle
carovane. Fin lì.
«I grani, ecco
il motivo». Presentino non ebbe più bisogno di gridare. «Nerone s’è opposto in
Collegio alla partenza di altre derrate. Nerone ha detto che non si devono far
morire di fame gli Aretini. Nerone ha chiesto giustizia per la sua gente».
Un mormorio
ammirato tornò a muovere la folla: infine qualcuno c’era, a difenderli!
«Ma perché
chiudere le Porte?»
Il beccaio ci
aveva messo un po’ prima di realizzare che la spiegazione del prete non gli
bastava. Era corso in piazza arrabbiato e smanioso di menar le mani. Di carne
ne vendeva poca, da un pezzo, e di soprusi non ne poteva più. Da mesi la sera,
in casa, prometteva alla moglie e ai figlioli che avrebbe fatto giustizia, che
se tutti eran codardi lui il coraggio di sgozzare i Fiorentini ce l’aveva e
l’avrebbe fatto vedere, a quei nobili rammolliti che subivano in silenzio o
peggio strisciavano come serpi. Era corso in piazza alle prime voci ed ora
voleva vederci chiaro.
«Perché ci
saranno altri arresti, ecco perché! Quelli del Collegio sono quasi tutti con
Nerone»
«Anche noi!
Anche noi!» si gridò dalla folla stretta attorno al palco improvvisato.
«Tutti siamo
prigionieri, tutti in pericolo! E solo perché vogliamo mangiare!»
«E i Priori, che
fanno? Il Gonfaloniere, che dice?» Il coltello del macellaio disegnava in aria
minacciose traiettorie.
«Al Palazzo!»
gridò una donna.
«Giusto! Che si
fa qui!? Tutti al Palazzo dei Priori!».
Un’onda di teste
cominciò a muovere su per il Borgo di Strada, prima scomposta e poi più
concorde e decisa, ingrossata man mano da nuova gente che affluiva dai vicoli e
dalle contrade. Pareva che ciascuno aspettasse quel segnale e che tutti gli
Aretini fossero ora per strada. Ogni uomo impugnava un arnese che
all’occorrenza poteva servir da arma, perché non si sa mai. Le spalle eran
tornate dritte: improvvisamente i Fiorentini non facevano più paura.
Nei volti dei
soldati alla Porta lo sconcerto provocato dal crescere dell’assembramento
inatteso, e per affrontare il quale non avevano ordini, lasciò posto al sollievo
per non aver dovuto sostenere uno scontro dall’esito incerto contro la folla
inferocita.
Presentino per
parte sua osservò con soddisfazione la piazza svuotarsi: dalla propria arringa
non poteva aspettarsi esito migliore. Adesso poteva rientrare in casa. La sua
parte l’aveva fatta, ed era ora di desinare. Toccava ad altri mettersi alla
testa di quella massa di disperati. In fondo, guidare una sommossa non è affar
da preti. Alzò di nuovo gli occhi con fiducia al cavallo e con gratitudine alla
Madonna che sorvegliavano la Porta.
Poi saltò giù
dal carro per tornare a mettersi a tavola, ma quando fu sul portone di casa lo
bloccarono gli inconfondibili rintocchi della Campana Pubblica.
«All’arme!
all’arme!» comandava l’imperioso batacchio. «All’arme! all’arme!» ripeteva
incessante, e l’ordine si sparse sui tetti, rotolò per le vie, s’insinuò nelle
case e ne cacciò gli ultimi incerti. Comparirono spade e picche nascoste chissà
dove, e tuonò perfino qualche archibugio.
«All’arme!
all’arme!» martellava nelle orecchie dei partigiani fiorentini, su nella parte
alta della città, sorpresi al principio e disorientati, atterriti ben presto
dalla vendetta minacciata da quei rintocchi. Un frettoloso girar di
chiavistelli, un affannoso tirar di catorci, uno sferragliar di spranghe
sbarravano i portoni dei Tondinelli, degli Albergotti, dei Cocchi, e delle
famiglie che fino ad allora avevan tratto profitto dall’occupazione fiorentina.
Anche il
Visdomini dalla soglia di casa sua sentì chiavi girare e cigolar di cardini, ma
voltandosi alla Porta di Santo Spirito sorrise: l’impaurita guarnigione aveva
deciso di riaprirla. Ad ogni buon conto, aveva pensato il prudente capo posto
dando ordine agli uomini di rientrare nel corpo di guardia, meglio evitare guai
maggiori. La piazza si stava infatti nuovamente riempiendo di popolo.
Molti di quelli
che stavano salendo verso il Palazzo dei Priori, fermatisi al suono inaspettato
della Campana e incerti su come interpretarlo e sul da farsi, avevano deciso di
tornare dove poco prima qualche spiegazione l’avevano avuta. In quel momento,
da sotto l’arco della Porta, entrò in città Nofrio Roselli, a cavallo e con un
suo figlio in groppa, senza che nessuno provasse a fermarli.
Presentino gli
si fece incontro. Era destino che quel giorno saltasse il desinare.
«Ero in
campagna. Ho sentito la Campana. Che succede?» cercò d’informarsi Nofrio senza
smontare.
«Guardate da
voi! Il trattato è scoperto, Nerone arrestato, ma il popolo è con noi!»
La folla faceva
calca intorno al cavallo.
Il Roselli capì
la situazione e cosa convenisse fare. Buttò da una parte prudenza e paure e,
così a cavallo come si trovava, attaccò ad incitare la gente: «E’ l’ora! E’ il
momento! Tutti con me! Basta coi soprusi! Difendiamo Arezzo e noi stessi!
Prendete le armi e seguitemi!»
Una selva di
picche bastoni asce coltelli si levò insieme a grida bellicose, e le donne non
eran da meno degli uomini.
Nel marasma
Nofrio s’abbassò verso il prete: «Sì, ma che suggerite? Dove li porto? Io
arrivo ora».
Presentino
voleva ribattere che neanche lui sapeva cosa fosse successo al Palazzo dei
Priori per dar voce alla Campana, quando arrivò di corsa un gruppo di giovani
ai comandi del fratello minore di Nerone, che si chiamava Luca ma tutti
conoscevano come lo Stivalino. Si fecero largo e raggiunsero il cavallo che il
Roselli faticava a tenere a freno in mezzo a tanta ressa.
«Al Palazzo di
Giustizia!» urlò lo Stivalino rivolto a Nofrio ma per farsi sentire da tutti.
«Il Commissario fiorentino è ancora lì ed è lui che tiene Nerone! Prendiamo il
Commissario! Liberiamo Nerone!»
L’eccitazione
della folla salì al massimo.
«Libertà per
Nerone!» gridavano tutti.
Ora Nofrio
sapeva cosa fare: «Al Palazzo di Giustizia!»
Di nuovo l’onda
scomposta delle teste s’allungò su per il Borgo di Strada, seguendo il cavallo
dei Roselli, il piccolo Stivalino e il beccaio scalmanato. Presentino corse
invece a casa. Gli era venuta un’idea diversa. Si precipitò in cantina, spostò
una botticella piena, si mise a grattare con le unghie uno strato di terra
umida dall’angolo dell’impiantito fino a scoprire un lastrone di pietra, lo
sollevò e dal piccolo nascondiglio recuperò una robusta cassa. Un attimo dopo
nella sua mano comparve un fodero d’acciaio ben lucidato, dal quale estrasse
una lama di stupenda fattura. Era un prete, certo, ma se la Campana chiamava all’arme…
e poi se gli fosse riuscito il colpo che stava meditando… di sicuro il Roselli
s’illudeva pensando che il Commissario fosse ancora al Palazzo di Giustizia.
Tornò fuori di
corsa, giusto in tempo per agganciare l’ultimo gruppetto di popolani urlanti e
armati alla peggio.
«Venite con me!»
Avete mai
provato a rifiutare l’ordine d’un prete armato di spada e con l’aria di saperla
usare? Lo seguirono per la fitta rete di stradine che fiancheggia il Borgo di
Strada, senza neanche chiedere dove li conducesse.
In verità
Presentino aveva ragione, al Palazzo di Giustizia non c’era più né il
Commissario né il Capitano. Tra il Palazzo e la Porta di Santo Spirito ci
saranno stati seicento passi al massimo ma le notizie corrono più delle gambe.
Visto come si mettevano le cose, le autorità fiorentine e i cittadini con loro
compromessi non s’erano fidati di spranghe e chiavistelli, ritenendo più sicuro
rifugiarsi in fretta nella Cittadella fortificata.
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