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"Basta!
Forza, tutti a dormire! Domattina si va all’assedio dell’Ancisa!» Guglielmo
traversò il campo, furioso quasi avesse sentito il racconto di Oddo.
«Boso
ha ragione: è davvero pazzo!»
Soffocarono
le braci, e Mauro entrò nella tenda considerando che gli era toccato di vivere
in un secolo di sangue e prepotenza.
«Oddo…»
«Cosa?»
«Perché
il Vescovo Guglielmino non intervenne? In fondo il Pazzo è suo nipote»
«Cane
non mangia cane! Su, dormite ora, ché domani non sarà una passeggiata».
Il
richiamo del soldato riportò la mente di Mauro al motivo per cui si trovava
sotto quella tenda. Tentò di dire a se stesso che era per una causa giusta, che
occorreva fermare le mire di Firenze, che i valori feudali andavano difesi, ma
una voce, stranamente somigliante a quella della Berta, continuava a dirgli che
non ne valeva la pena e che c’erano cose più utili da fare. E con quelle parole
in testa pian piano s’appisolò.
Poche
ore dopo, un rullo di tamburo lo scosse, strappandolo ad un sonno popolato da
battaglie assalti grida e sangue.
Si
sentì stordito e stanco, le ossa rotte e gli arti indolenziti.
Mise
il naso fuori dalla tenda: era ancora buio e l’aria fredda lo svegliò del
tutto. Sentì, intorno, il campo agitarsi e si preparò alla partenza.
Il
borgo murato dell’Ancisa è posto a guardia della gola dove s’infila l’Arno in
fondo alla vallata, cercando tra le rocce la via per Firenze.
I
Fiorentini avevano lasciato sguarnito il ponte e il borgo appariva deserto.
Osservando meglio però, riflessi metallici e scure sagome apparivano a
intervalli tra la merlatura rivelando il lavorio dei difensori.
Un
ragazzo s’avvicinò a Mauro: «Scaldano l’olio che getteranno sulle nostre
teste!»
«Io
sono Mauro, dei Mauri di Muciafora»
«Oh,
perdonate, non mi sono presentato: Roderigo, dei signori di Talzano, per gli
amici Ghigo»
«Com’è
che ti trovi qui?»
«Oh,
anche voi mi giudicate un bambino! Ma son grande, ormai, e so combattere, lo
vedrete. Sarebbe venuto mio padre, ma sta male, e così eccomi qua».
Scattò
una simpatia reciproca: «Dammi del tu, dato che dovremo condividere
quest’avventura».
Negli
occhi del ragazzo brillò un lampo di gioia.
Il
silenzio degli assediati contrastava con l’agitazione dei reparti aretini:
ordini incalzanti echeggiavano per tutto e il via vai ricordava la frenesia
d’un formicaio. Si schierarono le torri d’assalto e si piazzarono le balestre
grosse, le catapulte e i trabucchi; in fondo, lungo l’ansa dell’Arno, furono
montate le tende e i padiglioni dell’accampamento.
Prima
di nona l’apparato d’assedio era pronto.
Il
cielo intanto s’era fatto plumbeo e nuvoli gonfi di pioggia nascondevano le
cime dei colli.
«Domani
attaccheremo»
«Con
questo tempo non credo. E quest’apparecchio mi pare più adatto ad un lungo
assedio»
«Il
nostro giovane amico ha ragione». Oddo arrivò dai padiglioni dei Capitani, dove
s’era tenuto consiglio: «Guglielmo vuol profittare dell’occasione per cacciare
una volta per tutte i Fiorentini dal Valdarno».
Mauro
non era convinto e puntò l’indice verso la collina del San Donato: «Ma cosa se
ne fa dell’Ancisa quando da lassù le masnade guelfe possono calargli addosso
quando vogliono?»
«Eccola
che arriva, la risposta» replicò Oddo.
Guglielmo
cavalcava ancora tra le fila, mentre cominciavano a cadere goccioloni radi che
infittirono subito, divenendo scroscio in meno d’un minuto. Il Capitano
apostrofò i tre incurante del diluvio: «Ecco i rampolli dei Mauri e dei nobili
di Talzano». Poi vide avvicinarsi Boso: «E c’è anche il blasone degli Azzi.
Bene! Domattina vi metterete ai comandi di mio fratello Ubertino e andrete a
prendere San Donato in Collina! Voglio che i Fiorentini vi vedano e tremino».
S’allontanò
com’era venuto, ad arruolare altra gente.
I
nostri, ormai fradici, s’avviarono alle tende con ben altro in testa che la
pioggia.
E piovve su un’altra notte insonne per il nostro
Mauro, che rimase sveglio ad ascoltare lo scorrer dell’acqua lungo la tenda.
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