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Mentre
lasciavano il campo di Fegghìne, di mattina presto, Ghigo era speranzoso di
trattenere ancora l’amico: «Prima di tornare a casa, passerai da me, non è
vero? Voglio presentare a mio padre chi mi ha salvato la vita».
«Ma,
veramente…» Mauro aveva fretta di rivedere Muciafora e i suoi, di raccontar
l’avventura al vecchio Moro e di tranquillizzare sua madre.
«Non
sarà una deviazione lunga»
«Ma
sì, d’accordo».
Giunti
al mercatale di Levane, Oddo e Mauro mandarono a casa i servi e gli armati per
la via Vecchia Fiorentina, e seguirono Ghigo fino al borgo detto Ponticino. Risalirono
al trotto la via del Bastardo, una mulattiera selciata larga non più di tre
braccia e in alcuni punti meno di due, fino alla sella di Gratena, per calare
poi verso il corso del Chiana.
Si
fermarono ad abbeverare i cavalli presso una fonte.
«La
chiamano Sorgente dei Ladri» spiegò Ghigo, «e se vi guardate intorno potete
capire il perché». Il torrente Vingone scorreva stretto fra pendici incise da
profondi valloni, con un sottobosco fitto di pruni: il luogo ideale per gli
agguati.
«E
difatti i briganti assaltano regolarmente i piccoli gruppi che portano le merci
a basto verso Firenze e che si soffermano a rifocillare i muli. Solo le
carovane ben scortate hanno la possibilità di passare indenni: gli altri o
pagano dazio o perdono tutto!»
«E
non ci sono strade più sicure?»
«Da
qui si risparmia un bel po’ di tempo e soprattutto si evitano i balzelli della
città di Arezzo»
«Eh,
sì, per pagarli ai malfattori, col rischio di lasciarci magari la pelle» Mauro
si guardava intorno, inquieto.
«Beh,
a chi ce la chiede noi diamo protezione. E costa meno del dazio aretino!» La
risata di Ghigo si perse tra gli alberi. «Siamo quasi arrivati. Questi sono i
miei poggi e i miei burroni: posti selvaggi, un po’ come noi».
Lasciata
poco più avanti la mulattiera, cominciarono a salire per un ripido sentiero
laterale: «Non è tutta così, la nostra terra: sul versante che guarda Arezzo ci
sono anche buoni campi, ma io son cresciuto in questi boschi e ne conosco ogni
anfratto. Era proprietà dell’Abbazia di Santa Flora, quella della Torrita,
finché un giorno, due secoli fa, l’Abate la concesse in feudo al nobile
Liutardo, capo della nostra casata»
«Dunque
siete amici dei padri benedettini?»
«Amici!
Siamo sempre stati in lite, coi monaci, e ogni volta che qualcuno accenna
all’Abbazia volano parole grosse»
«E i
motivi di tanto astio?»
«Confini,
che altro? La maledetta terra, orgoglio e tormento di ogni nobile. I monaci ci
dettero questa zona impervia, ma ci impedivano di allargarci su terreni più
fertili. In questi due secoli si è accumulata una montagna di carte»
«E
tuo padre?»
«Ha
le sue idee. Lo conoscerai».
Il
portone venne aperto e subito richiuso alle loro spalle.
Nella
corte grande, ad accogliere il ritorno di Ghigo, c’era sua madre, in
atteggiamento dimesso. Dopo un lungo abbraccio, Ghigo presentò l’amico: «Madre,
questo è Mauro dei Mauri. Sapete, mi ha salvato la vita, sul San Donato»
«Dio
sia benedetto, ed anche voi, nobile signore». Sul volto le profonde occhiaie di
chi ha pianto molto. «Tuo padre sta male, Ghigo, davvero male. Da giorni la febbre
non lo abbandona, la tosse lo squassa e sputa sangue in continuazione. Non
mangia e se mette in bocca qualcosa, subito è scosso da conati di vomito»
«Oddio,
che dite?»
«Non
c’è medico, o prete, o guaritrice, che possa far nulla. Non son serviti salassi
né impacchi, ogni erba amara è stata vana. Signore grande, com’è fatto magro! È
finito, sai, finito».
«Vado
da lui, rifocillate i nostri ospiti, per piacere».
Nella
penombra della camera, lo accolse il respiro irregolare del genitore.
«Padre!»
«Sei
salvo!» Il malato cercò di tirarsi su, ma ricadde sul letto tossendo.
«Non
vi affaticate. Son salvo, ma solo per merito d’un amico, un compagno d’armi che
ho portato per farvelo conoscere»
«E
dov’è?»
«Qui
fuori che aspetta»
«Fallo
entrare. Voglio ringraziarlo». Allargò il petto in un lungo respiro e pareva
che il fiato non volesse più uscire, finché un sibilo e un colpo di tosse gli
ridettero vita.
«Voi
siete?»
«Mauro,
dei Mauri di Muciafora»
«Mauri!?
Che nome è mai questo?» Un sanguigno bagliore gli illuminò gli occhi, mentre la
saliva gli riempì la bocca.
«Chi
m’hai portato?» si fece rosso in faccia
«Mauri, come i maledetti mori che scorrazzano per le nostre terre!»
«Padre!»
«Zitto!
Che parli lui: sei uno di loro?»
«Ma
no, che dite. E poi son finite da un pezzo, le scorrerie dei Saraceni»
Il
viso del vecchio era diventato paonazzo: «Il colore della tua pelle ti
tradisce, come il tuo nome! Sei un moro e non ti voglio in casa mia!» Sputò
saliva e sangue. La rabbia gli fece stranamente superare la tosse: «Vuoi le mie
donne, eh? E il mio oro, confessa! Ma non avrai niente! Vattene, satana!»
«Padre,
per pietà, non sapete quello che dite».
La
tosse lo scosse di nuovo. Appena poté, inveì contro il figlio: «Ti ha
convertito, eh? Lo sapevo, fanno sempre così, questi demoni, si prendono i
giovani, prima, e poi le donne!»
Ghigo,
sconvolto, si girò all’amico, gli occhi gonfi di lacrime, e non ascoltò più il
delirio del padre, che tuttavia proseguì: «Già da piccolo ti hanno convinto
quei maledetti monaci della Torrita, con la loro religione fatta di terre e di
ricchezze!» Una smorfia di dolore gli piegò la bocca, mentre con le mani si artigliava
lo stomaco: «E adesso stai con i Saraceni! Fuori! Via da questa casa, tutt’e
due!»
Le
grida strozzate richiamarono la moglie che aspettava fuori dell’uscio:
«Calmatevi, su. State buono, ché vi fa male». Poi si voltò a Mauro:
«Perdonatelo, è la febbre che lo fa sragionare». E al figlio: «Perdonalo anche
tu, eh?»
Ghigo
s’appoggiò all’amico, che lo sostenne e lo accompagnò fuori, all’aperto.
Anch’egli aveva bisogno d’aria fresca.
Comprendeva
il miserevole stato del padrone di casa, e sapeva quanto terrore avessero
portato i Saraceni, tanto che ancora si dava il loro volto alle sagome contro
cui i cavalieri si allenavano per le giostre, ma non s’aspettava certo
un’accoglienza simile.
Ghigo
s’asciugò le lacrime: «Perdonaci, ti prego, non è per questo, che ti ho chiesto
di venir qui»
«Non
ti preoccupare per me, le febbri sono una brutta cosa».
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