Me ne andavo verso la Pieve con la cesta di tovaglie
d’altare pulite e ben piegate. Era già la seconda consegna che facevo, quel
giorno. Un po’ perché era sabato e le chiese avevano bisogno dei lini puliti
per le messe della domenica, un po’ per la voglia d’uscire dal convento, una
frenesia che non m’aveva abbandonata dopo l’incontro con Nerone in San
Francesco. Non m’era più riuscito di vederlo e questo alimentava i miei sogni e
l’impazienza.
Ovviamente il primo viaggio, anche quella mattina, l’avevo fatto
alla chiesa dei Francescani, ma ancora invano. C’era poi qualcosa di strano,
nell’aria, che m’inquietava. Vocii lontani tra le case, sbatter d’usci,
movimento frettoloso d’armati. Tornata al convento mi dissero di lasciar
perdere le altre consegne, ché non si sapeva cosa stesse succedendo, ma io
naturalmente non diedi retta alle pavide monache.
Uscita dal portone sentii la Campana e repressi un
brivido, senza però tornare indietro. Davanti al Palazzo dei Priori vidi gente
che arrivava da ogni via, e tra loro diverse donne. Tirai dritto, ma come
svoltai sulla ripida discesa di Sassogna, sotto l’imponente muro del Palazzo
del Popolo, dovetti arrestarmi.
Venivano su dal Borgo di Strada due uomini sullo
stesso cavallo seguiti da un’orda vociante e armata. M’appiattii al muro e
rimasi ad osservare.
Il cavaliere più anziano si fece un segno di croce
davanti alla Madonna del portale di Pieve, poi superarono la Fonte del Canale
con la folla che pareva spingerli da dietro e infine smontarono proprio davanti
al portone aperto del Palazzo di Giustizia. In due o tre fecero per entrare, ma
sulla soglia si scontrarono con un tale che sbarrava l’ingresso. Non si
trattava d’uno sgherro fiorentino né d’altra specie d’armato: piuttosto
all’apparenza un notaro corpulento, un uomo di lettere, forse un prete.
«Levatevi!» urlò un giovane smilzo a agitato.
«Levatevi voi, invece!» rispose quello, e dalla voce
lo riconobbi: era messer Antonio Valdambra, un fisico che nell’inverno m’aveva
curato da una grave costipazione che m’impediva anche di respirare. «Tornate a
casa! Vi par questo il modo d’entrare in Palazzo!? E tutta la plebaglia che vi
segue? Che volete, eh? Qui s’amministra la Giustizia! Che cercate, branco
d’arrabbiati!?»
La folla rimase un attimo interdetta dalla foga dello
sconosciuto, ma poi gli si scagliò contro.
«Che cercate voi, piuttosto!? Chi siete per opporvi al
popolo?» gridavano.
Ed altri: «Ma chi è costui? Qualcuno lo conosce?»
«Mah! Sarà qualche nuovo aguzzino arrivato fresco da
Firenze!»
«Tornate a casa, vi ripeto!» insisteva quello. «Per il
bene vostro e dei vostri figli. Il Commissario non è qui!»
Alla fine vi fu uno che lo riconobbe: «E’ il
Valdambra!»
E un suo vicino confermò: «Sì, sì, è proprio lui».
E un altro: «Chi, il fisico?» «Sì, sì!».
Ora tutti, soprattutto tra il popolino, approvavano:
era un medico arrivato in città da pochi mesi, ma già conosciuto e stimato per
la sua ottima conoscenza delle erbe, per gli infusi e gli impacchi che ne
ricavava, che si diceva avessero proprietà miracolose, e anch’io potevo
testimoniarlo.
«Se ti cura lui, guarisci di certo!»
«E’ vero che prende quello che gli dai?»
«Sicuro! Non come tanti suoi colleghi, che ti spennano
e ti lasciano malato com’eri!»
«Però è amico dei Fiorentini»
«Che t’importa! Se ti guarisce…»
«Ma che ci fa qui?»
«Che ci fate qui, messer Valdambra? Non è il vostro
posto. Non vi mettete in mezzo». Il giovane smilzo, che somigliava stranamente
a Nerone, gli si fece vicino minaccioso, seguito dagli altri. «Voi non
c’entrate, ma per i vostri padroni è suonata l’ora. Non avete sentito la
Campana? Hanno finito di affamarci!»
«Non sai cosa dici! E voi non sapete cosa fate! Se non
fosse per la cura che la Repubblica si prende di voi, Arezzo neanche
esisterebbe più, e su questi colli pascolerebbero le pecore!»
«Che dite!? Siete cieco o non volete vedere? Quanta
gente avete curato, in questi mesi, ammalata soltanto di fame?»
«Colpa vostra! Se soltanto offriste collaborazione,
invece di pensare sempre a ribellarvi! L’era dell’orgoglio cittadino è finita
da un pezzo. Oggigiorno…»
Una grossa pietra, scagliata dal mucchio, gl’impedì di
finire la frase. Colpito alla testa, stramazzò per terra. Vidi uno schizzo di
sangue macchiare lo stipite della porta ed ebbi un sussulto.
«A casa i Fiorentini!» gridavano dalla folla.
«Morte ai loro amici!»
Il sangue li scatenò. Mille bocche si aprirono ad
urlare tutte insieme, mille braccia si levarono armate, mille gambe si mossero
serrando la ressa verso il portone.
«Fermi! Che fate!? Siete ammattiti?»
Il riflesso d’una lama percorse in quel momento la
calca con incredibile rapidità. A gomitate spintoni e calci un prete si fece
largo, scaraventando a terra i più lenti a scansarsi e prevenendo a manate
qualche tentativo di reazione.
Si frappose tra il medico caduto e i più facinorosi:
«Basta, adesso! Volete i capi o ve la prendete col primo che capita?»
Un gigante dall’aspetto d’un beccaio era lì in prima
fila.
«E’ uno di loro! Li difendeva!» si giustificò per
tutti.
«E’ un medico che vi curava! Troppi ce n’è che si son
piegati a servire i potenti!»
«Li prenderemo tutti!»
Non si può far ragionare un’orda arrabbiata. L’unica è
distoglierla e non averne paura, e il prete non ne aveva.
«Sì, ma dopo! Ancora non siamo padroni d’Arezzo! Non
siamo padroni di niente, ancora! Prima il Commissario! Prima il Capitano! Prima
il Vescovo!»
Ma che razza di prete era mai questo! Incitava
addirittura la gente contro il suo Vescovo! Sapevo che il capo della Chiesa
aretina era Cosimo de’ Pazzi, figlio del Commissario fiorentino, ma era pur sempre
un uomo consacrato, accidenti. Alla massa comunque non parve interessare il
presule, e si concentrò sugli altri nemici: «Sì, il Commissario! Dateci il
Commissario! Fuori il Capitano!»
Il povero medico era già dimenticato. Vidi il prete
che si chinava su di lui. I capi del tumulto lo scavalcarono e sparirono
all’interno, per riapparire quasi subito.
«Qui non c’è nessuno!»
«C’era da aspettarselo! Ormai saranno tutti al sicuro
in Cittadella»
Il macellaio s’agitò: «Paghi il fisico, allora!»
La spada del prete tornò a sovrastare la folla:
«Pagherà chi deve pagare! Non avete sentito la Campana? Che fate ancora qui? Al
palazzo dei Priori! È lì che ci ha chiamati!»
«Sì, sì! dai Priori, dai Priori!»
Il medico era salvo, ma il prete non aveva intenzione
di star lì ad aspettar che si riprendesse: «Ehi, tu! Vieni qui!»
Il macellaio si guardò attorno: tutti si stavano
muovendo verso la cima del colle di San Pietro, dove sorgono, l’uno di faccia
all’altro, l’Episcopio, la Cattedrale e il Palazzo dei Priori.
«Dico proprio a te. T’affido messer Valdambra: portalo
dentro e trovagli un giaciglio. Bada che non gli succeda niente di male o te la
vedrai con me e con Dio! Appena starà meglio, voglio vedervi tutti e due su in
piazza davanti ai Priori».
Vidi il macellaio aprir bocca per ribattere, ma la
richiuse su-bito. Crollò la testa come un cavallo recalcitrante, ma s’avvici-nò,
senza sforzo apparente prese su il pesante medico e sparì all’interno,
brontolando. Il prete accennò un sorriso e venne a gran passi per la salita, passandomi
accanto senza nemmeno vedermi.
Lo sentii imprecare tra sé: «Maledetti imbecilli!
Potevo aver già catturato il Vescovo! E invece a quest’ora sarà al sicuro con
gli altri! E adesso come pensano di liberar Nerone!?»
Trasalii, mentre quello continuava: «Preso il Vescovo
si poteva fare uno scambio, e magari pretendere pure che lasciassero la
Cittadella, ma ora…»
S’allontanò per la contrada dell’orto, verso il
Palazzo dei Priori da dove giungeva il vociare della folla. Rimasi a chiedermi
cosa c’entrasse Nerone in tutto quel trambusto e perché bisognasse liberarlo:
era forse prigioniero? Cosa stava succedendo?
Dovevo saperne di più e gli tenni dietro, dimenticando
d’aver sotto braccio la cesta da consegnare in Pieve.
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