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Gli
appiedati seguivano più indietro, menando carri vuoti da riempir col bottino
che s’annunciava facile: non c’era traccia di reparti fiorentini e gli
abitanti, come sempre in questi casi, eran fuggiti a cercare scampo per forre e
burroni. Intorno alle case sparse vagavano, facili prede, pecore capre e
animali da cortile.
I
pedoni si fregavano le mani soddisfatti ad ogni abitazione che raggiungevano.
Sapevano cosa nascondesse la terra smossa di fresco sotto il noce, o le buche
coperte in fretta sotto la paglia della stalla: stoccafissi e pezzi di lardo,
pancette e insaccati di buristo cambiarono proprietario andando ad appesantire
i basti, mentre sui carri si caricava di tutto: paioli mezzine bugie sgabelli
botticelle di vino e qualche ziro d’olio.
I
cavalieri frattanto arrivarono a San Donato in Collina. Non aveva mura, il piccolo
borgo, ma solo poche case esposte al vento e la chiesa dedicata al patrono di
Arezzo.
Tutto
appariva deserto.
In
breve i cavalieri occuparono lo spiazzo davanti alla chiesa, facendo cerchio
intorno all’olmo secolare che svettava sulle case, ad indicare il punto di
valico e l’inizio della discesa verso Firenze. Da qui si vedeva bene, la città
nemica giù in fondo, e le curve dell’Arno e le odiate mura. Sembrava anche di
potervi calare in fretta, come il falco sulla preda.
Mentre
Ubertino dei Pazzi dispensava ordini, s’udì improvviso un colpo violento e la
porta grande della chiesa si spalancò, e poi quella del transetto e infine
l’uscio della sacrestia.
Contadini
sporchi si precipitarono fuori di corsa armati degli attrezzi più vari, armi
rozze che la rabbia rendeva micidiali.
Erano
decine e presero di sorpresa gli Aretini. I cavalli impauriti scartarono
impennando e scalciando.
Cominciò
un fitto lancio di sassi e gli straccioni dettero addosso ai nobili guerrieri.
«Sta’
giù!» gridò Mauro assestando una poderosa spinta al cavallo di Ghigo, giusto in
tempo perché il giovane evitasse un’ascia che andò a finire nella macchia oltre
lo spiazzo.
Poi
urlò ai suoi: «Con me!» L’assalto improvviso aveva spazzato via l’ansia
accumulata durante la salita.
Li
condusse dietro al tempio, come in fuga, e poi li fece rientrare nella mischia,
aggirando il fianco dei contadini, e seminando lo scompiglio fra quegli
sciagurati, che si sbandarono subito: chi prima spingeva contro il nemico si
precipitò verso la macchia o giù per la via di Firenze o si disperse tra le
case.
La
manovra di Mauro consentì ai cavalieri di riprendersi: circondarono una
trentina di sventurati al centro dello spiazzo e li strinsero in un doppio
cerchio di cavalli.
Ubertino
uccise quello che aveva di fronte, un vecchio magro che si accasciò con un
gemito sommesso. Ad uno ad uno i poveri contadini vennero sterminati, tra grida
e invocazioni di pietà.
«No!»
Mauro non s’aspettava questo finale e con orrore vide ripetersi il massacro di
Castelnovo. Si slanciò per impedire lo scempio, ma Oddo gli si parò davanti:
«Fermo!»
«Perché?
Son prigionieri, contadini, disarmati!»
«E’
la guerra».
Le
urla continuavano. Ghigo s’allontanò a vomitare.
«Che
credevate? Questa non è la canzone d’un giullare!» gridò Boso, mentre Oddo prese
le redini di Mauro e lo condusse più in là, presso alla chiesa; al giovane
ronzava la testa e si dovette aggrappare alla criniera del cavallo per non
cadere.
«Siete
ferito?»
«No,
no»
«State
male?»
«Ora
passa».
S’avvidero
che un gruppo di straccioni s’era rifugiato all’interno del tempio e Mauro ebbe
un sussulto. Si drizzò, riprese le redini e piazzò il cavallo a protezione
dell’uscio, la lancia ben dritta in parata. Stava bene, ora.
Ordinò:
«Schieratevi!»
Un’occhiata
di Oddo confermò l’ordine e si disposero in linea, spalle alla chiesa. Anche
Boso allineò i suoi con un cenno di approvazione. Lo stesso Ghigo, bianco come
un cencio lavato, li raggiunse e si affiancò.
La
vendetta frattanto s’era tristemente conclusa e i cavalieri esaltati si
rivolsero verso la parrocchiale: «C’è da finire il lavoro! Andiamo a tirar
fuori quelli rintanati in chiesa!»
Lentamente
Mauro puntò la sua lancia contro il grosso del contingente, imitato dagli altri.
Lo stupore s’intuì dietro le celate dei guerrieri, che s’arrestarono. Mauro non
trovò la voce e parlò Oddo: «La chiesa è di Dio e il diritto d’asilo è sacro!»
Nessuno
ribatté, ma dalla prima fila qualche lancia s’abbassò per rispondere alla
sfida. Ubertino si sfilò l’elmo e fissò Mauro, che sentì il cuore schizzargli
in gola ma non mosse un muscolo.
Al
Capitano non sfuggì la singolarità d’un blasone con la pantera e la mezzaluna
che difendeva una chiesa cristiana. Poi si volse indietro: «Riponete le armi.
Il rampollo dei Mauri ha ragione: non siamo cani infedeli e questa chiesa è
consacrata al nostro Santo Patrono. I pezzenti che vi son rintanati non dimenticheranno
tanto presto la lezione».
La
tensione svanì e finalmente si poté cantar vittoria: “Viva! Per Arezzo! San Donato
Cavaliere!”
Boso
avvicinò il suo cavallo a quello di Mauro ed accennò un inchino. Ghigo sorrise.
Ubertino
riprese a distribuire ordini: «Voi! Occupate le case e assegnatele per la
notte. Voi invece organizzate i turni di sentinella, e voi ripulite lo spiazzo.
Tu e tu e anche tu: disponete per il fuoco, qui al centro». Guardò di nuovo
Mauro: «Gettate qualche tozzo di pane a quei malnati là dentro, e poi sbarrate
le porte. Han cercato riparo in chiesa? Che ci restino!»
Un
sole rosso s’abbassava sui monti tingendo di fuoco striature di nuvole leggere,
resto dei nembi del giorno prima.
Dalla
parte dell’Ancisa arrivavano a gruppi i pedoni carichi di bottino.
Dalle
razzie s’eran ricavate diverse botticelle di vino e dopo cena i suoi effetti si
fecero sentire: risa sgangherate si mescolavano a canti osceni, chi si
azzuffava per un coscio di agnello, chi invece russava buttato di traverso su
un cumulo di fieno.
«Bruciamo
l’olmo!» Un omone dalla testa deforme aizzava compagni ebbri quanto lui: «Mettiamo
fuoco!»
Il
gruppo dei cavalieri si godeva la scena, finché Ubertino sbottò: «Ha ragione.
Bruciamo l’olmo».
Lo
guardarono increduli, fissando poi l’albero dal tronco possente e la maestosa
chioma, fitta di rami in una trama regolare e fantastica. Rare foglie secche
aspettavano d’essere scalzate di lì a poco poco dall’arrivo dei nuovi fiori.
“Anche
il Capitano è ubriaco” pensarono in molti, ma nessuno osò replicare.
Ubertino
spiegò: «Un fuoco così lo vedranno da Firenze, e sapranno che siamo quassù, e
non dormiranno tranquilli stanotte. Anzi, non dormiranno affatto!»
Tolto
un tizzone dal fuoco, glielo lanciò: «Tieni, brucia l’olmo!» L’omone esitava.
«Forza! Volevi far fuoco? Ora te lo ordino: brucia quella maledetta pianta!»
Il
gorilla si guardò attorno e poi raccattò il tizzone caracollando verso
l’albero. Altri arrivarono con manne di paglia secca e in breve la pianta si
trasformò in un gigantesco falò.
Lo
spiazzo e la chiesa e le case e la macchia intorno e la via da una parte e dall’altra
ne furono illuminate a giorno. Lingue di fuoco risalivano i solchi del tronco e
danzavano rincorrendosi sui palchi verso le ramificazioni più estreme. Ciocchi
ardenti si staccavano cadendo a terra, scintille sprizzavano per l’aria e
vampate di calore investivano gli armati ad ogni refolo di vento.
Rimasti vicino alla chiesa, Mauro e gli altri
osservavano avviliti quella bolgia, dove gli uomini in cerchio sembravano ai riverberi
anime dannate, e forse lo erano davvero, presi nel vortice di rancori e di
vendette che alimentavano un fuoco più rovente di quello del grande olmo.
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