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Ai
primi di marzo del 1289, in un mattino umido e uggioso, nei boschi del
Guarniente, sulle pendici che risalgono l’alpe di Catenaia, i rami delle querce
dei lecci dei castagni gocciolavano ancora per la pioggia caduta durante la
notte.
I
cappucci calati in testa, Pietro e Mauro avanzavano a piedi sul sentiero,
menando i cavalli per le briglie verso un capanno di legno al centro d’una
radura.
Erano usciti a caccia accompagnati da Oddo, il capo degli armati di
famiglia, ma gli archi erano rimasti inoperosi a tracolla. Pietro, cui le dita
mancanti impedivano di tendere a dovere anche il leggero arco da caccia, imbracciava
una piccola balestra che s’era fatto preparare su misura da un armaiolo della
contrada di San Piero.
L’inverno
era stato duro. Fino alla Candelora aveva nevicato molto e spesso. Le pendici
del Pratomagno e di Catenaia, le colline più basse intorno a Muciafora e
perfino la piana di Arezzo avevano mostrato per settimane un panorama bianco
uniforme, nel quale potevi distinguere le case solo per le volute di fumo che
salivano dai camini sempre accesi.
Dopo
la metà di febbraio la temperatura era salita e le abbondanti piogge avevano
sciolto la neve permettendo ai mansi ai vici alle ville di riprendere
l’attività quotidiana. Nel bosco si notavano gli effetti del recente inverno:
dappertutto uno strame di erbe seccate, rami troncati dal peso della neve, e
interi alberi strappati dai greppi con le loro radici.
«Ci
sarà legna anche per il prossimo inverno» osservò Pietro.
Sul
prato le primule annunciavano giorni migliori.
Lasciati
i cavalli alla pastura, i nostri entrarono e mentre Oddo si dava da fare col
fuoco sfregando pietra e acciarino su un ciuffo di paglia, Mauro estrasse dalla
sacca pane nero mele noci e castagne secche.
«Torna
primavera, e già son ricominciati scontri e battaglie». Massaggiava il
moncherino per scaldarlo, Pietro, con le braccia tese alla fiamma. Non era
contento. Per la prima volta non sarebbe stato protagonista di alcuna battaglia
e questo gli rendeva uggiosa la guerra.
Era
preoccupato dal fatto che suo figlio doveva prendere il suo posto, e non gli
sembrava pronto: aveva coraggio, certo, ma non amava le armi, quel ragazzo, e
mancava di aggressività. Cavalcava magnificamente, era attento e forte, aveva
imparato le tecniche di combattimento, ma un conto è la teoria, tutt’altro trovarsi
faccia a faccia col nemico, quando si vince o si muore, quando per vincere
bisogna odiare, e Pietro non aveva mai visto odio negli occhi del suo Mauro.
«L’esercito
è rientrato ieri da Siena». Oddo era stato in città ad informarsi.
Mauro
intervenne: «Ma non disse, Guglielmino, che al Toppo s’erano chiusi i conti,
coi Senesi?»
«Lo
disse, ma si sbagliava, o s’illudeva».
Pietro
aveva un altro cruccio: «Non mi sembra che il Comune abbia trovato il Podestà
adatto a questi tempi»
«Non
avete fiducia in Guido Novello? Eppure è di provata fede ghibellina, è forse il
personaggio più in vista nella grande famiglia dei conti Guidi e ha retto anche
Firenze»
«Già,
fu nel ’60, dopo la battaglia di Montaperti, quando la potenza fiorentina
poteva essere annientata o almeno domata. Guido ottenne il governo su quelle
mura arrese, ma alla prima scaramuccia se la diede a gambe, e i guelfi
ripresero Firenze»
«Son
passati tanti anni»
«Ricordati,
caro Oddo, che chi è scappato una volta scapperà di nuovo! Il coraggio non si
compra al mercato tre grossi l’oncia e il tuo Guido in fatto di fughe è un vero
esperto: nel '68 si salvò fuggendo dalla disfatta di Tagliacozzo, che costò la
vita a Corradino di Svevia. E fuggì l’anno dopo da Colle di Val d’Elsa, e Siena
da quel momento divenne guelfa e alleata di Firenze».
Oddo
era in imbarazzo: «Comunque ieri in città si respirava un’aria euforica: i
nostri han fatto bottino e inflitto un’altra lezione ai Senesi»
«Eh,
Oddo, ragioni proprio come un uomo d’arme: qualche scorreria, bottino, un bel
falò, un po’ di morti, e si torna a casa contenti»
«Non
è andato a casa proprio nessuno»
«Che
vuoi dire?»
«Le
nostre masnade han messo il campo fuori le mura, e si sta arruolando altra
gente, prima di ripartire. Gira voce che stavolta si vada contro Firenze».
Stettero
per un po’ silenziosi a fissare il fuoco che già si spegneva. Poi, con un
calcio, Pietro gettò terra sui carboni accesi: sapeva che sarebbe toccato anche
a Mauro.
Lasciarono
il capanno mentre ricominciava a piovere.
La
mattina successiva, di buonora, Mauro e suo padre erano al cantiere della Ruga
Mastra, dove i lavori eran ripresi: nella corte interna del palazzo si stavano
fissando le centine di sostegno per gli archi del portico.
Mastro
Simo dava indicazioni ai carpentieri e Pietro illustrava al figlio i progetti
della casa.
Dal
cancello aperto entrò una fanciulla.
«Berta!»
Mauro trasalì e non ascoltò più suo padre.
«Speravo
di trovarvi qui. Come state? Buona giornata, messer Pietro». Il riverito
rispose con un cenno del capo.
«C’è
movimento, in città. Armati, cavalieri, masserizie e carri in quantità son
radunati al Prato della Giustizia, fuori Porta Nuova. Si parla di una
spedizione contro Firenze e ho temuto che anche voi sareste partito»
«No,
no. Siamo qui a curar la costruzione. Venite, ma attenta a dove mettete i piedi».
Pietro
sorrise alle premure del figlio: «Perché non la conduci a passeggio? Qui non mi
pare posto per fanciulle»
«Non
temete, messer Pietro, so badare a me stessa. E poi, ve l’ho detto, la città è
tutto uno sferragliare d’armi. Maledetta smania di combattere, voi uomini non
ve ne levate mai la voglia!»
«Berta!»
la rimproverò una voce alle sue spalle. «Perdonatela, messer Mauri, mia figlia
è impulsiva e talvolta mette bocca dove non dovrebbe: tale e quale la sua
povera madre».
Si
voltarono al nuovo venuto, che abbozzò un inchino e un sorriso: «Venite, vi
prego, siete messer Bencio, immagino».
Bencio
bicchieraio era un uomo sulla cinquantina, magro e di bassa statura. Anni di
lavoro al chiuso della bottega, chino sul tornio, avevano reso curvo il suo
portamento quasi fosse gobbo.
«Padre!»
«Vorrete
perdonare l’intrusione, ma a me piace sapere chi frequenta mia figlia»
«Giusto,
messer Bencio. Mi duole solo ricevervi in cantiere»
«Sono
io che arrivo inatteso. Spero che la spedizione contro Firenze non vi faccia
mancare troppi operai».
I
due uomini si spostarono di qualche passo, continuando la conversazione tra
loro: «In effetti vostra figlia non ha torto. Anch’io non ne posso più di
questi continui scontri: le campagne son devastate, i vici e i mansi messi a
fuoco, le braccia più giovani sottratte al lavoro. E tutto questo per soddisfare
le mire dei nobili, come succede da noi, o gli interessi dei mercanti, come
capita a Firenze».
Bencio
non s’aspettava quello sfogo, anche se, da artigiano, ne condivideva le
ragioni, sicuro che la pace sia la miglior condizione per fare affari.
«Siete
guelfo o ghibellino?»
«Ghibellino,
certo, ma non sono cieco e vedo anche i torti che ci sono dalla nostra parte»
«Stavolta
partirà pure vostro figlio, non è vero?»
Pietro
guardò il suo interlocutore e capì da chi avesse preso la figlia. Fece per rispondere
quando un rullar di tamburi che già da un po’ s’udiva in lontananza si avvicinò
costringendoli ad interrompere il colloquio. Anche i loro figli, che nel
frattempo parlavano tra loro fitto fitto, ammutolirono, e così il capomastro, e
gli operai non batterono più sui chiodi.
Un
drappello si fermò sulla piazzetta davanti Santa Maria in Gradi e i tamburini
tacquero per lasciar parlare un araldo che s’era posto sul sagrato.
«L’eccellentissimo
Vescovo di Arezzo, il nobilissimo messer Guglielmino della nobile famiglia
degli Ubertini, e l’illustre nostro Podestà, messer Guido Novello, conte di
Poppi e di Modigliana, dell’antica famiglia dei conti Guidi, convocano gli Aretini
tutti, di città, delle cortine e del contado, in assemblea di nobili e di
popolo, oggidì ad ora nona alla Platea Communis».
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