giovedì 2 aprile 2020

EPISODIO 16 - SENTORI DI GUERRA



Ai primi di marzo del 1289, in un mattino umido e uggioso, nei boschi del Guarniente, sulle pendici che risalgono l’alpe di Catenaia, i rami delle querce dei lecci dei castagni gocciolavano ancora per la pioggia caduta durante la notte.
I cappucci calati in testa, Pietro e Mauro avanzavano a piedi sul sentiero, menando i cavalli per le briglie verso un capanno di legno al centro d’una radura.
Erano usciti a caccia accompagnati da Oddo, il capo degli armati di famiglia, ma gli archi erano rimasti inoperosi a tracolla. Pietro, cui le dita mancanti impedivano di tendere a dovere anche il leggero arco da caccia, imbracciava una piccola balestra che s’era fatto preparare su misura da un armaiolo della contrada di San Piero.
L’inverno era stato duro. Fino alla Candelora aveva nevicato molto e spesso. Le pendici del Pratomagno e di Catenaia, le colline più basse intorno a Muciafora e perfino la piana di Arezzo avevano mostrato per settimane un panorama bianco uniforme, nel quale potevi distinguere le case solo per le volute di fumo che salivano dai camini sempre accesi.
Dopo la metà di febbraio la temperatura era salita e le abbondanti piogge avevano sciolto la neve permettendo ai mansi ai vici alle ville di riprendere l’attività quotidiana. Nel bosco si notavano gli effetti del recente inverno: dappertutto uno strame di erbe seccate, rami troncati dal peso della neve, e interi alberi strappati dai greppi con le loro radici.
«Ci sarà legna anche per il prossimo inverno» osservò Pietro.
Sul prato le primule annunciavano giorni migliori.
Lasciati i cavalli alla pastura, i nostri entrarono e mentre Oddo si dava da fare col fuoco sfregando pietra e acciarino su un ciuffo di paglia, Mauro estrasse dalla sacca pane nero mele noci e castagne secche.
«Torna primavera, e già son ricominciati scontri e battaglie». Massaggiava il moncherino per scaldarlo, Pietro, con le braccia tese alla fiamma. Non era contento. Per la prima volta non sarebbe stato protagonista di alcuna battaglia e questo gli rendeva uggiosa la guerra.
Era preoccupato dal fatto che suo figlio doveva prendere il suo posto, e non gli sembrava pronto: aveva coraggio, certo, ma non amava le armi, quel ragazzo, e mancava di aggressività. Cavalcava magnificamente, era attento e forte, aveva imparato le tecniche di combattimento, ma un conto è la teoria, tutt’altro trovarsi faccia a faccia col nemico, quando si vince o si muore, quando per vincere bisogna odiare, e Pietro non aveva mai visto odio negli occhi del suo Mauro.
«L’esercito è rientrato ieri da Siena». Oddo era stato in città ad informarsi.
Mauro intervenne: «Ma non disse, Guglielmino, che al Toppo s’erano chiusi i conti, coi Senesi?»
«Lo disse, ma si sbagliava, o s’illudeva».
Pietro aveva un altro cruccio: «Non mi sembra che il Comune abbia trovato il Podestà adatto a questi tempi»
«Non avete fiducia in Guido Novello? Eppure è di provata fede ghibellina, è forse il personaggio più in vista nella grande famiglia dei conti Guidi e ha retto anche Firenze»
«Già, fu nel ’60, dopo la battaglia di Montaperti, quando la potenza fiorentina poteva essere annientata o almeno domata. Guido ottenne il governo su quelle mura arrese, ma alla prima scaramuccia se la diede a gambe, e i guelfi ripresero Firenze»
«Son passati tanti anni»
«Ricordati, caro Oddo, che chi è scappato una volta scapperà di nuovo! Il coraggio non si compra al mercato tre grossi l’oncia e il tuo Guido in fatto di fughe è un vero esperto: nel '68 si salvò fuggendo dalla disfatta di Tagliacozzo, che costò la vita a Corradino di Svevia. E fuggì l’anno dopo da Colle di Val d’Elsa, e Siena da quel momento divenne guelfa e alleata di Firenze».
Oddo era in imbarazzo: «Comunque ieri in città si respirava un’aria euforica: i nostri han fatto bottino e inflitto un’altra lezione ai Senesi»
«Eh, Oddo, ragioni proprio come un uomo d’arme: qualche scorreria, bottino, un bel falò, un po’ di morti, e si torna a casa contenti»
«Non è andato a casa proprio nessuno»
«Che vuoi dire?»
«Le nostre masnade han messo il campo fuori le mura, e si sta arruolando altra gente, prima di ripartire. Gira voce che stavolta si vada contro Firenze».
Stettero per un po’ silenziosi a fissare il fuoco che già si spegneva. Poi, con un calcio, Pietro gettò terra sui carboni accesi: sapeva che sarebbe toccato anche a Mauro.
Lasciarono il capanno mentre ricominciava a piovere.

La mattina successiva, di buonora, Mauro e suo padre erano al cantiere della Ruga Mastra, dove i lavori eran ripresi: nella corte interna del palazzo si stavano fissando le centine di sostegno per gli archi del portico.
Mastro Simo dava indicazioni ai carpentieri e Pietro illustrava al figlio i progetti della casa.
Dal cancello aperto entrò una fanciulla.
«Berta!» Mauro trasalì e non ascoltò più suo padre.
«Speravo di trovarvi qui. Come state? Buona giornata, messer Pietro». Il riverito rispose con un cenno del capo.
«C’è movimento, in città. Armati, cavalieri, masserizie e carri in quantità son radunati al Prato della Giustizia, fuori Porta Nuova. Si parla di una spedizione contro Firenze e ho temuto che anche voi sareste partito»
«No, no. Siamo qui a curar la costruzione. Venite, ma attenta a dove mettete i piedi».
Pietro sorrise alle premure del figlio: «Perché non la conduci a passeggio? Qui non mi pare posto per fanciulle»
«Non temete, messer Pietro, so badare a me stessa. E poi, ve l’ho detto, la città è tutto uno sferragliare d’armi. Maledetta smania di combattere, voi uomini non ve ne levate mai la voglia!»
«Berta!» la rimproverò una voce alle sue spalle. «Perdonatela, messer Mauri, mia figlia è impulsiva e talvolta mette bocca dove non dovrebbe: tale e quale la sua povera madre».
Si voltarono al nuovo venuto, che abbozzò un inchino e un sorriso: «Venite, vi prego, siete messer Bencio, immagino».
Bencio bicchieraio era un uomo sulla cinquantina, magro e di bassa statura. Anni di lavoro al chiuso della bottega, chino sul tornio, avevano reso curvo il suo portamento quasi fosse gobbo.
«Padre!»
«Vorrete perdonare l’intrusione, ma a me piace sapere chi frequenta mia figlia»
«Giusto, messer Bencio. Mi duole solo ricevervi in cantiere»
«Sono io che arrivo inatteso. Spero che la spedizione contro Firenze non vi faccia mancare troppi operai».
I due uomini si spostarono di qualche passo, continuando la conversazione tra loro: «In effetti vostra figlia non ha torto. Anch’io non ne posso più di questi continui scontri: le campagne son devastate, i vici e i mansi messi a fuoco, le braccia più giovani sottratte al lavoro. E tutto questo per soddisfare le mire dei nobili, come succede da noi, o gli interessi dei mercanti, come capita a Firenze».
Bencio non s’aspettava quello sfogo, anche se, da artigiano, ne condivideva le ragioni, sicuro che la pace sia la miglior condizione per fare affari.
«Siete guelfo o ghibellino?»
«Ghibellino, certo, ma non sono cieco e vedo anche i torti che ci sono dalla nostra parte»
«Stavolta partirà pure vostro figlio, non è vero?»
Pietro guardò il suo interlocutore e capì da chi avesse preso la figlia. Fece per rispondere quando un rullar di tamburi che già da un po’ s’udiva in lontananza si avvicinò costringendoli ad interrompere il colloquio. Anche i loro figli, che nel frattempo parlavano tra loro fitto fitto, ammutolirono, e così il capomastro, e gli operai non batterono più sui chiodi.
Un drappello si fermò sulla piazzetta davanti Santa Maria in Gradi e i tamburini tacquero per lasciar parlare un araldo che s’era posto sul sagrato.
«L’eccellentissimo Vescovo di Arezzo, il nobilissimo messer Guglielmino della nobile famiglia degli Ubertini, e l’illustre nostro Podestà, messer Guido Novello, conte di Poppi e di Modigliana, dell’antica famiglia dei conti Guidi, convocano gli Aretini tutti, di città, delle cortine e del contado, in assemblea di nobili e di popolo, oggidì ad ora nona alla Platea Communis».

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