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Nel
pomeriggio inoltrato la Ilde scrutava la campagna come ogni giorno dalla
finestra della camera del figlio, e vide avanzare il pennone azzurro con la
mezzaluna d’argento e la pantera rampante. Era rimasta delusa, il giorno prima,
vedendo arrivare solo gli armati e i servi, e sul principio s’era anche impaurita.
L’avevano rassicurata, ma un po’ d’ansia era rimasta: perché quella deviazione?
Come mai non era corso subito da lei, a dirle: son qui tutto intero? Anche il
suo Pietro, lo sentiva, avrebbe preferito vederlo tornare subito.
L’ingresso
nel cortile fu annunciato dal chiasso dei marmocchi. Dal portone della torre,
Pietro e la Ilde ammirarono il loro ragazzo. Mauro smontò, corse ad abbracciar
la mamma, e il padre lo gratificò con una pacca sulla spalla.
Il
Moro, seduto sul suo masso, aveva l’aria di sufficienza del veterano che niente
può commuovere, ma le sue dita tormentavano l’impugnatura del bastone. Quando
Mauro s’avvicinò gli disse: «Quanti ne hai mandati all’inferno, di’?»
«Moro!»
«Nella
mia prima battaglia lasciai in terra tre cavalieri e sette pedoni. Alla fine
della giornata mi ero già fatto un nome!»
«Suvvia,
Moro, lasciatelo a noi, stasera». Pietro sottrasse il figlio all’ennesimo
racconto e lo accompagnò in casa, mentre nella corte giovani e donzelle
improvvisavano danze.
Alla
cena fu invitato anche il pievano di Santo Stefano ed eccezionalmente vi venne
ammesso pure Oddo, che mentre mangiavano raccontò della spedizione, mettendo in
risalto il ruolo di Mauro nello scontro sul San Donato, tralasciando però il
fatto della difesa dei contadini e la reprimenda di Guglielmo. Il giovane si
schernì e tentò a più riprese di sviare il discorso, finché si rivolse al
prelato con una richiesta precisa: «Buon reverendo, col permesso di mio padre
vorrei affidarvi un incarico».
Sua
madre, intenta a ravvivare il fuoco, si fermò.
«Vorrei
che presentaste a Bencio bicchieraio la mia richiesta di prendere in moglie sua
figlia Berta».
Parlava
col prete ma guardava suo padre, ansioso di averne l’approvazione. Pietro lanciò
uno sguardo alla sua Ilde, che aveva ripreso a stuzzicar le braci e sorrise non
vista. Poi annuì: «Mi sembra una buona idea. Anche se non hanno blasoni di nobiltà,
Bencio e sua figlia son persone ammodo».
Gli
occhi di Mauro brillarono.
«Anzi»
proseguì Pietro «vi pregherei di invitarli una domenica qui da noi: discuteremo
la cosa davanti a un buon arrosto».
Sorrisi
pacche e complimenti si sprecarono, finché Pietro congedò tutti: «Adesso è ora
di coricarci. I nostri cavalieri sono stanchi e vorranno riposare».
Il
mattino dopo di buonora Pietro spalancò la finestra su una splendida giornata,
per vedere il suo Mauro cavalcare solitario verso la Torraccia, il severo
rudere di un’antica torre di comunicazione, ai margini dei boschi del Guarniente.
Da
lassù si dominava la piana, chiusa in fondo dai colli di Arezzo.
Decise
di raggiungerlo.
«Padre,
ieri sera Oddo non ha raccontato tutto, della nostra spedizione, ed è opportuno
che sappiate quello che avvenne alla fine dello scontro».
Naturalmente
dopo cena il fedele Oddo aveva riferito al padrone i particolari omessi in
pubblico e quindi Pietro conosceva l’intera storia, ma lasciò continuare il
figlio, che gli narrò di come s’era opposto alla profanazione della chiesa ed
avesse poi tenuto testa a Guglielmo che lo accusava di indisciplina. Alla fine
approvò, e insieme sedettero a guardare la loro città così inquieta, in cui
avevano deciso di fondare la propria casa, atto di fiducia verso un futuro che
non sembrava per niente sereno.
Un
galoppo li fece voltare: un cavaliere col vessillo dell’Abbazia di Campoleone,
due leoni affrontati a sostener la croce, cercava proprio di loro. Il suo
aspetto era inquietante: Mauro fece caso al suo naso adunco, quasi un becco di
corvo, alle orecchie aguzze come quelle del pipistrello, ai denti canini, così
lunghi da mettere i brividi ogni volta che apriva bocca, alle mani infine,
dalle dita affusolate senza essere eleganti, e al vezzo di lasciar crescere le
unghie, sozzo ricettacolo di sporcizia. La bianca croce cucita sulla nera veste
monacale completavano una figura che l’abbozzo d’un sorriso rendeva ancor più
sinistra.
«Vengo
dal convento del Murello ed ho l’incarico di avvertire tutti, nella zona, che
per questo pomeriggio il Podestà ha di nuovo convocato il popolo alla Platea
Communis».
«Ancora!
Prima Siena, poi il Valdarno. E adesso?»
«Il
messaggio finisce qui, ma c’è gran fermento: qualcuno vorrebbe attaccare il
castello di Civitella!»
«Vieni,
torniamo verso casa».
Mentre
scendevano Pietro aggiornò il figlio sugli ultimi sviluppi: «Vedi, pare che il
Vescovo abbia voluto la spedizione all’Ancisa solo per convincere i Fiorentini
a trattare»
«Una
trattativa?»
«Niente
di ufficiale, ma girano delle voci. I soldi non mancano certo, alla città del
fiore e dei fiorini»
«Guglielmino
non venderà mai la città!»
«La
città no, semmai i suoi castelli del Casentino»
«Ci
son davvero dei contatti?»
«Mistero.
Sta di fatto che Guglielmino non è in città. Dopo che l’esercito è partito,
l’altro giorno, il Vescovo si è ritirato nel suo castello di Civitella,
alimentando i sospetti»
«Sentiremo»
«No
di certo. Noi non andremo alla convocazione»
«E
perché mai?»
«Son
faccende intricate e non è saggio farsi coinvolgere prima di capire le reali
intenzioni di chi ci comanda. Andare vuol dire mettersi contro il Vescovo.
Aspettiamo e vedremo»
«Io
pensavo...»
«Di andare a trovare Bencio bicchieraio, non è
vero?» Pietro aveva indovinato una volta di più i pensieri del figlio. «Faremo
piuttosto così: come ho detto ieri sera, inviteremo la tua Berta e suo padre.
Tra una settimana è l’Annunciazione e alla Pieve di Classe c’è il passaggio
delle greggi. I pastori che tornano di Maremma fanno tappa lì per la
benedizione degli animali. Quale occasione migliore per stabilire il vostro
fidanzamento? Penserà il pievano a fare gli inviti, come gli hai chiesto ieri».
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