giovedì 16 aprile 2020

CAPITOLO 22 - L'INTERROGATORIO


«Dunque, messer Romani, mi dicono che volete morire». Le mani di Marcantonio, congiunte dai ferri che gli stringevano i polsi, si agitarono inquiete, cominciarono a sudare e impallidirono perché il sangue si rifiutava di defluire fin lì. Il poveraccio deglutì e si umettò le labbra con la lingua.

Guglielmo lo incalzò: «Vi siete fatto invischiare in una brutta storia. La parola per definire quello che state tramando è tradimento e per i traditori, lo sapete, c’è la morte».
La bocca di Marcantonio si piegò in una smorfia: «Non so niente, Commissario». La voce gli si spezzò.
«Suvvia, non mi prendete in giro. Mettiamola così: quello che ho saputo sul vostro conto è più che sufficiente per dar lavoro al boia e fosse stato per me a quest’ora sareste nelle sue mani, ma siamo uomini, perdìo, e talvolta le preghiere ci muovono a compassione, soprattutto se sono dei bravi ragazzi, a supplicarci. Ora pare che tra i vostri parenti ve ne sia uno più giovane di voi ma sicuramente più saggio. Costui ha perorato la vostra causa così sinceramente che mi ha convinto a darvi una possibilità».
Un incontrollabile tremito s’impadronì del prigioniero.
«Ecco dunque il patto che vi propongo. Offro perdono completo di fronte alla vostra confessione spontanea, come in chiesa. E se poi voleste, così da voi dico, riferirci i termini del trattato e i nomi dei vostri complici, non vi mancherebbe un’adeguata ricompensa».
Chi diavolo poteva essere quel parente tirato in ballo dal Commissario?
«Pensateci, ma non troppo! Siete entrato in questa stanza in ceppi e potete uscirne con l’amicizia di Firenze. Voi siete mercante e questo non mi sembra un cattivo affare, vero?»
«Io vorrei favorirvi, sicuro». Il tremito non s’arrestava. «Ma però…»
«Ho capito. Siete duro come tutti gli Aretini. Ma voglio aiutarvi». Guglielmo fece un cenno all’armato piantato sull’uscio e quello lo aprì per far entrare il giovane Aurelio.
Ecco chi era! Vigliacco! Ancora un ragazzo e già pronto a tradire! Perché, poi? Quanto ne sapeva, di tutta quella faccenda? Non ricordava, Marcantonio, di avergliene mai parlato. Forse il figlio di Bernardino…
Aurelio se ne stava a capo basso, senza trovare il coraggio di guardarlo in faccia, ma sollecitato da Guglielmo cercò di spiegarli: «Perdonatemi. Non volevo tirarvi in ballo. Mi ci hanno costretto. Mi hanno promesso, però… vero che avete promesso, Commissario?»
Era proprio un ragazzo, accidenti a lui!
«Loro non vogliono noi… vero, Commissario, che non volete noi? Vogliono i capi… vogliono Nerone…»
Nerone! Marcantonio scattò. Le sue mani ripresero a sudare e a contorcersi nei ferri. Dunque gli aveva detto anche di Nerone! Il tremito lasciò il posto ad una languidezza, come se non mangiasse da tre giorni; la salivazione gli aumentò e le ginocchia parvero cedere. Se sapevano di Nerone, allora il trattato era davvero scoperto!
«E bravo il nostro mercante. Vedo che il vostro giovane parente vi sta facendo riflettere. Ve lo avevo detto che sapevamo abbastanza, della congiura. Ma il nostro Aurelio, qui, ha ragione: non ci interessa accanirci sulle brave persone come voi. Se ci date i capi del complotto…»
«Nerone!»
Nerone ormai era perduto, ma forse si potevano ancora salvare gli altri, e loro stessi. Raddrizzò la schiena, rassicurato da quella che gli parve una soluzione almeno accettabile. Se il piano era fallito, non restava che limitare i danni.
«Nerone, ecco. Domandate a lui. Lui è il capo. Lui sa tutto. Nerone mi ha contattato. Lui mi ha detto che si preparava una sollevazione. Lui mi ha affidato il mio compito, che era quello di far sapere a Vitellozzo quando tutto fosse pronto. Solo a lui ho fatto riferimento. E gliel’ho detto, che era pazzo, che non era cosa da riuscire. Anzi, che non volevo nemmeno entrarci. Ma che volete, sono anch’io aretino e qui devo vivere»
«E non avete neanche chiesto chi altri c’era, nella combriccola? Su! Non posso crederlo»
«Per chiedere, l’ho chiesto, eccome! Non mi andava proprio di imbarcarmi senza neppur conoscere gli altri marinai! È meglio che tu non sappia, fu quello che mi rispose. Siamo in tanti, e questo ti basti. Meno ognuno sa e meglio è per tutti. Se si venisse scoperti, disse proprio così, se si venisse scoperti, l’ignoranza di ciascuno sarà la salvezza degli altri»
«Perdìo! Qualcuno dovrà pur tirare i fili della trama!»
 L’impazienza di Guglielmo esplose in un grido: «Capitano!», dimenticando che il Capitano di Giustizia assisteva all’interrogatorio al suo fianco.
«Capitano» ripeté a voce più normale «mandate dunque a prendere Nerone e vediamo se ci riesce di smascherare questo branco di cani rognosi».

Nerone stava facendo il punto con i suoi, in piedi nel cortile della sua casa di città, quando venne zittito da colpi violenti che scossero il portone.
Proprio ieri Marcantonio Romani, tornato da Città di Castello, gli aveva riferito che Vitellozzo era quasi pronto, e lui aveva sguinzagliato i suoi ad avvisare tutti. Anche in città era l’ora di serrare le fila. Ormai un numero sufficiente di Aretini era al corrente del piano e pronto a fare la propria parte. Bisognava definire dunque gli ultimi dettagli, assegnare con precisione i compiti, fissare il giorno e infine far sapere a Vitellozzo che poteva muovere. La sera prima aveva radunato a casa sua quanti più uomini poteva.
Da quando Pierantonio Lambardi era diventato Gonfaloniere, il ruolo di Nerone nella congiura era cresciuto, fino a diventarne il vero capo. Se infatti la posizione assunta imponeva prudenza allo Sfregiato, Nofrio Roselli non aveva certo la stoffa del capo ed anzi, più si avvicinava il giorno fatidico meno si faceva vedere in giro, restandosene molto tempo in una sua villa fuori città. Non che volesse tirarsi indietro, intendiamoci, solo che il suo nervosismo risultava più d’impiccio che d’aiuto, e lui se ne rendeva conto.
Nerone era d’altra pasta. Sincero e diretto, con l’aiuto del Burali aveva rapidamente tirato in lega tutti coloro che pensava affidabili, cominciando dai più vessati dall’oppressione fiorentina. I due insieme avevano stilato un elenco di elementi e famiglie da tener fuori trattato, o perché compromessi coi Fiorentini ossia ritenuti di scarsa serietà o troppo vicini alla Chiesa aretina e al suo Vescovo, monsignor Cosimo de’ Pazzi, anch’egli Fiorentino e figlio del Commissario Guglielmo.
Non era stato un lavoro facile. In città gli intrecci le parentele le amicizie i rapporti le conoscenze erano tali che quasi tutti sapevano quasi tutto di quasi tutti. In più l’efficiente rete di spie fiorentine contava agenti tra i nobili come tra i servi. Ma anche Nerone e il Burali avevano organizzato nel giro di pochi giorni un buon numero di informatori, piazzati nelle stanze del potere, in curia, e nelle cucine di alcune famiglie guelfe.
Un’ora prima, mentre stava radunando i suoi nel cortile, gli avevano riferito dell’arresto di Marcantonio.
«Per quel poco che conosco il Romani, parlerà».
Gli risposero forti colpi all’uscio. «La Corte! Aprite!» si gridò dalla via.
«Ha parlato». Mugugnò un’imprecazione e poi ordinò agli uomini di avvertite il Burali e di sparpagliarsi per la città aspettando le sue direttive».
Infine si rivolse al gruppetto che aveva fatto venire da Pantaneto: «Quanto a voi, andatevene all’osteria e restateci finché le acque si saranno calmate. Poi tornate qui e aspettate il mio ritorno. Anche se dovrò andar con loro, non potranno far niente ad un membro del Collegio»
«Sta bene» consentì il massiccio fattore, uso più alla zappa che ai registri, secondo le abitudini di Pantaneto e del suo signore, «ma si esce dal portone principale. Siamo o no in casa nostra?»
Prima che Nerone potesse replicare s’avvicinò all’uscio, ne tolse il palo e lo spalancò. La ventina di contadini che si buttò sulla via sorprese gli sgherri della Corte, che pure erano venuti in forze. Ne nacque un tafferuglio, e botte e spinte e strattoni e grida e minacce riempirono la contrada in un momento. Quando la zuffa si stava facendo battaglia al balenar delle lame lunghe e corte, Nerone s’affacciò alla porta. Davanti a lui un armato stava per colpire un giovane servo. Lo anticipò e con un pugno al volto lo scaraventò esanime nella polvere. Poi la sua voce imperiosa fermò tutti: «Basta! V’ho detto che vado con loro e ci andrò. Voi fate come vi ho ordinato!»
I soldati fiorentini, che stavano per soccombere, si rialzarono rassettandosi alla meglio e il caposquadra cercò di condurre a termine il proprio compito: «Messer Antonio di Nicola da Pantaneto, dovete seguirci: il Capitano di Giustizia chiede di vedervi».
Con un cenno d’intesa al fattore, Nerone s’incamminò a gran passi e il drappello gli tenne dietro, cercando di disporsi in formazione. Un energumeno s’era caricato sulle spalle lo svenuto.
Nella sala delle udienze del Palazzo di Giustizia, in vetta al Borgo Maestro, Nerone si trovò davanti, oltre al Capitano Galilei, pure il Commissario fiorentino. Non che gli facesse meraviglia, immaginando il motivo della convocazione, pure rimuginò preoccupato, senza darlo a vedere, sulla sorte del trattato e dei congiurati, essendo evidente che il piano era scoperto e restava solo da vedere quanto quei signori ne sapessero in realtà.
Un po’ in disparte se ne stavano, a capo basso, Marcantonio Romani ed il giovane Aurelio.
«Messer Antonio, conoscete queste persone?» attaccò il Commissario con tono formale, dando subito ad intendere che si trattava d’un interrogatorio e non di un semplice colloquio.
«Le conosco»
«E’ possibile che li abbiate visti nel corso di una delle vostre frequenti visite a Città di Castello?» Guglielmo calcò volutamente l’accento sulla parola frequenti.
«E’ possibile»
«E che mi dite di loro?»
«Non vedo cosa potrei dirvi e a quale proposito»
«Sono a parer vostro dei malfattori?»
«Non ho motivo per crederlo, né ho conoscenza di alcun delitto che abbiano commesso»
«Dunque per voi sono persone dabbene»
«Per quanto ne so, lo sono»
«Oneste»
«Penso di sì»
«Sincere»
«Commissario…»
«Rispondete!»
«Ve l’ho detto: per quanto li conosco io, lo sono»
«Dunque facciamo bene a dar loro credito su quanto ci hanno riferito sul vostro conto».
Senza dar tempo all’interrogato di rispondere e reputando inutile proseguire in una pantomima che non aveva minimamente scalfito la calma di Nerone, il Commissario gli riassunse quanto aveva saputo dai due circa il piano di rivolta e il ruolo che secondo loro vi stava svolgendo lo stesso Nerone.
«Che ne dite?»
Nerone indugiò qualche istante prima di rispondere, facendo passare lo sguardo dal Commissario al Capitano e ai suoi accusatori, e ostentando tranquillità. «Che volete che vi dica» replicò infine. «Che i miei concittadini vogliano liberare Arezzo dal giogo fiorentino non mi meraviglia. Voi sapete quante lagnanze il Consiglio è costretto a presentare quasi ogni giorno, e come voi regolarmente le ignoriate. Conoscete pure, anche se fate finta di non vedere, le misere condizioni in cui ci avete ridotti»
«Dunque è vero che siete un ribelle!» sbottò Guglielmo, che non si aspettava una così pacata reprimenda.
«E’ vero invece che voi siete oppressori» gli tenne botta Nerone, senza però scomporsi. «E tuttavia che si intenda porre in atto un concreto piano di rivolta lo vengo a sapere adesso da voi».
Guglielmo fece per ribattere ma ci ripensò, e accennò a Marcantonio di farsi avanti: «Ripetete di fronte a questo impudente le cose che ci avete riferito, messer Romani».
Lo sguardo timoroso che il mercante rivolse a Nerone voleva esser di scusa, che non era stato lui a tirarlo in quella situazione ed anzi lui stesso ci era stato trascinato, e già i Fiorentini sapevano tutto, e ancora non era successo niente, e collaborando se ne poteva uscire con poco male, e bisognava pensare che l’idea era azzardata, e non si poteva chiedere di far l’eroe ad un modesto mercante, e in fondo Nerone godeva d’immunità.
Se gli occhi agitati di Marcantonio esprimevano tutto questo, la voce che gli uscì roca e bassa borbottò soltanto: «Non posso che confermare, signor Commissario, quanto vi dissi»
«Riditelo!»
«Ecco, che abbiamo sentito d’un trattato promosso da Vitellozzo Vitelli»
«Per far cosa!?»
«Sì, per liberare Arezzo»
«Sobillare, perdìo! Rivoltare!»
«Appunto, come dite voi»
«E quest’uomo?»
Non è facile accusare un presente, tradire uno che ti guarda negli occhi, con calma ma come se tu fossi Giuda Iscariota.
«E quest’uomo!?»
«Abbiamo sentito quello che si dice in giro»
«Allora!?»
«Messer Antonio potrebbe essere il referente di Vitellozzo in città».
Decisamente la pazienza di Guglielmo era al limite, e urlò sul viso del pavido testimone: «Potrebbe o è?»
«E’…»
«E’ vero? Siete il referente?»
Nerone sapeva di godere dell’immunità che gli garantivano gli Statuti quale membro del Collegio, e nel suo animo si mescolava la compassione per il vigliacco mercante al disprezzo per il giudice impotente.
«Non so di cosa parliate»
«Siete o no a capo del trattato?»
«Se non conosco trattati, come posso esserne a capo?»
«Diglielo, mercante! Digli del cugino!» Ormai la rabbia di Guglielmo non lasciava più spazio alle formalità ed era passato al tu senza neanche avvedersene, maledetti Aretini!
«E’ che quelli del trattato devono chiamare Vitellozzo solo col nome di cugino»
«Ingegnoso»
«Insisti a negare?»
«Statemi a sentire, Commissario. Voi mi fate delle domande ed io vi rispondo. È nel vostro diritto e nei doveri della mia educazione. Ma due cose non vi sono permesse, neppure dalla carica che ricoprite: mettere in dubbio la verità delle mie risposte e mancarmi di rispetto». Stavolta il tono di Nerone era deciso e colse Guglielmo di sorpresa.
Rimase interdetto per un momento, poi perse le staffe, afferrò uno sgabello che gli era a tiro e lo scaraventò contro la parete. Puntò il dito contro Nerone: «Dunque per voi il trattato non esiste, mentre avete sentito che per un vostro concittadino esiste eccome, e ce ne ha fornito convincenti particolari. A chi devo credere, secondo voi, eh? Perché un fatto è certo: non è possibile che tutti e due diciate la verità. Allora io vi chiedo: chi è il bugiardo, voi o lui?»
Le domande retoriche non meritano risposta.
«Non rispondete? Bene! Io però, converrete, ho bisogno di conoscere la verità, e poiché come sostenete devo rispetto ad entrambi, non mi resta che lasciarvi il tempo di riflettere ed eventualmente modificare le vostre dichiarazioni». Guglielmo sembrava aver recuperato la calma: «Ma voglio fare di più: per favorire la vostra riflessione vi farò accompagnare tutti e due in Cittadella!»
Marcantonio sobbalzò: «Ma come!? Anche me?»
Anche Nerone fu colto alla sprovvista, ma cercò di non darlo a vedere. Probabilmente la mossa del Commissario mirava soltanto ad intimidirlo: «Neanche questo è nelle vostre possibilità, e lo sapete bene»
«Non è cosa? Nelle mie possibilità? Volete finirla di dire al Commissario di Firenze cosa può fare e cosa no? Siete voi qui l’autorità o sono io? Ecco: guardate se è nelle mie possibilità. Capitano!»
«In effetti, Commissario…»
«Capitano!»
Il Galilei chiamò la guardia alla porta, che a sua volta introdusse altri armati a prendere in consegna i due.
«Fatemi chiamare, quando avrete riflettuto» sogghignò Guglielmo facendo segno che li portassero via.
Nerone non disse altro.

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