|
La
Platea Communis, chiamata volgarmente piazza del Comune, era il cuore
pulsante della città. Sull’ampio sterrato in marcata pendenza s’affacciavano
l’imponente Palazzo del Popolo, quello del Comune di recente costruzione, l’abside della Pieve di Santa Maria ed alcune nobili
case-torri. Vi si svolgeva il mercato e vi si tenevano le assemblee cittadine.
Quel
giorno la folla aspettava l’annuncio delle decisioni prese.
Il Podestà Guido
Novello e il Capitano Buonconte da Montefeltro apparvero sul loggiato del
palazzo comunale.
Il
discorso del Podestà fu breve e pratico. Ricordati i motivi della guerra contro
Firenze, indicò a tutti la fila di tavoli schierati nell’angolo della piazza
proprio sotto il loggiato, dove i notai erano pronti a registrare gli
arruolamenti di cavalieri e pedoni e le forniture di armi, muli, attrezzature e
vettovaglie che ciascuno era in grado di provvedere per la riuscita della
spedizione.
In
breve gli uomini formarono delle file, mentre le donne facevano capannello nel
lato opposto della piazza, intorno alla fontana prossima all’abside della
Pieve. Le operazioni notarili furono rapide e prima di vespro l’esercito
aretino era fatto.
Quando
la Ilde, dalla sua postazione alla finestra della camera del figlio, vide
arrivare i suoi uomini, era ormai quasi buio. Le notizie viaggiano più veloci
dei cavalli e a Muciafora si conoscevano già le novità della giornata. Quella
volta scese ad accoglierli fino al portone della torre, li vide entrare nella
corte e smontare, circondati dal piccolo popolo del castello. Sentì Pietro dare
ordini agli armati e agli stallieri: la mattina dopo Oddo ed altri due armati
avrebbero accompagnato Mauro nella spedizione, seguiti da due servi su un carro
con le provviste e l’attrezzatura militare.
Vide
il suo Mauro agitato ed emozionato, spavaldo ma con un leggero tremolio nella
voce, ed ebbe un brivido.
Finalmente
i due uomini le si avvicinarono, e lei mormorò: «La cena è pronta».
Dopo
mangiato salì nella camera del figlio a preparargli la veste per l’indomani,
sistemando braghe camicia e mantello sul coperchio d’un baule. Il resto
dell’abbigliamento era già pronto nell’armeria: il farsetto imbottito, l’usbergo
di maglia di ferro, la corazza a placche, e poi ginocchiere schinieri guanti e
scarpe metalliche, e infine la sopravveste con i colori di famiglia, insieme
all’elmo a staro, allo scudo di suo padre e alla serie completa delle armi,
dalla lancia alla mazza ferrata, dalla spada a doppio taglio alla corta daga;
non mancava neppure un’ascia a manico corto ed uno spadone a due mani, lascito
di suo nonno Mauro.
Poi
s’affacciò sul cortile e li vide, padre e figlio, intenti a parlare col vecchio
Moro.
|
Il
castello di Montevarchi sorvegliava l’antica via Clodia, la strada maestra che
da Arezzo portava a Firenze costeggiando l’Arno a mancina, pressappoco a metà
percorso tra le due litigiose città, distanti ognuna ventidue o ventitre
miglia. Era tenuto da una guarnigione fiorentina, ma gran parte della valle era
dominio di tre famiglie ghibelline: gli Ubertini, parenti del vescovo Guglielmino,
i Pazzi loro consorti e il ramo di Poppi dei conti Guidi, che è come dire il
Podestà di Arezzo Guido Novello.
Sotto
al castello c’era un mercatale, luogo di commerci nei periodi di pace e di
accampamento per eserciti nelle frequenti spedizioni militari.
E’
lì che arrivò Mauro con l’oste aretina, in una sera umida di marzo, dopo una
marcia di quasi dieci ore.
Insieme
a Oddo montò le tende, mentre i due servi provvedevano al fuoco e a sistemare
cavalli e muli.
Intorno,
altri cento bivacchi illuminavano scene simili: i veterani si riconoscevano e
si salutavano, qui si faceva capannello intorno ai dadi, più in là si raccontavano
storie di battaglie.
Mauro
era come stordito dalla confusione.
Nell’attività
del campo notò i segni della gloria, nelle insegne dispiegate, nel luccichio
delle armi, nei superbi cavalli da guerra, nei padiglioni di comando. Non gli
sfuggirono però spunti d’abbrutimento, nelle risa sguaiate, negli accenni di
lite, negli ubriachi che vagavano tra i bivacchi, negli stracci che coprivano
molti pedoni.
«Il
giovane di casa Mauri è pensieroso?» L’improvvisa voce alle sue spalle lo fece
trasalire.
La
testa piuttosto grossa di Guglielmo dei Pazzi faceva vanto d’una capigliatura
folta pur se canuta, raccolta in una lunga coda che ricadeva sulle spalle.
Aveva più di sessant’anni ma pareva conservare intatta la forza giovanile.
«Bravo!
Osservate e imparate» aggiunse, «domani potrete farvi onore!» Così sentenziando
allentò le redini e andò ad offrirsi all’omaggio di altri bivacchi.
«Senti
chi parla di onore!»
Nuovamente
Mauro sobbalzò, poi riconobbe Boso degli Azzi, accompagnato da Gorino, suo
scudiero e tutore. Negli occhi del nobile c’era lo stesso velo di tristezza e la
mobilità inquieta della famosa sera nella taverna del Calderaio, due anni
prima.
«Sapete
come lo chiamano? Guglielmo Pazzo! Pazzo lui e pazzo suo padre Ranieri, pazzi
di nome e di fatto! Fatevi raccontare cosa capitò trecidi anni fa al borgo di
Castelnovo». Ciò detto, salutò con un gesto della mano e si diresse alle
proprie tende.
Allora
il giovane chiese lumi a Oddo, che stuzzicava le braci ma non perdeva d’occhio
il suo padrone.
Nessun commento:
Posta un commento