Mentre
Presentino si dava da fare per salvare dal linciaggio il povero dottor
Valdambra, nel Palazzo dei Priori Pierantonio Lambardi, lo Sfregiato,
s’affannava a spiegare al messo del Commissario che il tumulto era nato a
seguito dell’arresto di Antonio detto Nerone da Pantaneto, che godeva
d’immunità quale membro del Collegio. Il Commissario, infatti, dal suo rifugio
sicuro in Cittadella gli aveva mandato un notaio a chieder ragione dello
sconquasso e ad intimargli di sedarlo subito. Ora il notaio gli stava davanti
in atteggiamento dimesso, scusandosi quasi per l’ingrato compito che gli era
toccato.
L’Aretino è
orgoglioso, gli spiegava il Lambardi, la città, benché sottomessa, non
sopportava che si calpestassero impunemente le prerogative concesse dagli
accordi. Se piuttosto il Commissario avesse fatto conoscere per tempo al
Gonfaloniere le ragioni del provvedimento, di sicuro non si sarebbe fatto tanto
rumore, ed anzi non gli sarebbe mancata la sua collaborazione per punire il
colpevole. Che se invece Nerone fosse innocente, allora toccava al Commissario
spiegare i motivi d’un tale abuso, e solo il rilascio poteva placare il
tumulto. D’altra parte cosa poteva fare un Gonfaloniere di fronte ad un intero
popolo in rivolta? Il messo riferisse pure al Commissario che lo stesso
Gonfaloniere e tutti i Priori sarebbero andati volentieri loro ad incontrarlo
in Cittadella per chiudere l’incidente, se non avessero temuto di far aumentare
con questo la furia del popolo. Lo pregavano quindi di voler lui venire al
Palazzo dei Priori, dove si sarebbe chiarita ogni cosa.
A dirla tutta,
avuta notizia dell’arresto di Nerone, lo Sfregiato s’era sentito perso: se
veniva fuori il suo nome, nella posizione in cui era, non ci avrebbero pensato
due volte ad impiccarlo. Il vortice dei suoi pensieri ricalcava a distanza
quello del Roselli e del Visdomini e sfociava in una sola domanda: come
salvarsi? Poi sentì della chiusura delle Porte e pensò di non aver più via di
scampo. Udito però che la folla usciva dalle case e si ammassava alla Porta di
Santo Spirito, gli balenò l’idea folgorante di far suonare la Campana civica:
sapeva che i rintocchi avrebbero scatenato un tumulto senza speranza, del quale
però avrebbe potuto presentarsi come paciere, salvando così la faccia agli
occhi dei Fiorentini. E se invece la rivolta avesse prevalso, la si poteva
sempre cavalcare.
Presentino
arrivò a mischiarsi alla folla vociante che gremiva la piazza dei Priori in
tempo per vedere il Commissario Guglielmo de’ Pazzi entrare nel Palazzo, seguito
dal Capitano di Giustizia Alessandro Galilei.
Non è da pensare
che i due si fidassero del Gonfaloniere e delle sue parole. Pure avevano
accolto l’invito del Lambardi, un po’ per la prospettiva di risolvere
pacificamente la cosa, confidando nel fatto che la congiura era ormai scoperta,
un po’ perché non disponeva di un numero di armati sufficiente ad imporre
l’ordine con la forza, un po’ infine illudendosi che sarebbe bastata l’autorità
della loro presenza.
In effetti,
entrando nella sala le loro speranze sembravano prendere decisamente corpo. I
Priori stavano contestando al Gonfaloniere d’aver fatto suonare la Campana
senza averli prima avvertiti, ponendoli ora davanti ad una situazione che
poteva sfuggir loro di mano da un momento all’altro.
All’apparire dei
due Fiorentini, le recriminazioni cessarono di colpo ed ognuno guadagnò il
proprio scranno, ma l’imbarazzo era palpabile, mentre il Lambardi si alzava in
piedi per ripetere il discorso fatto poco prima al messo.
Appena tornò a
sedersi, il Commissario assunse un’aria contrita e si scusò per non aver saputo
che l’accusato fosse membro del Collegio, ed assicurò di non aver avuto
intenzione di ledere alcun diritto della città.
«Ma questo caso
è così alto, signori, da togliere a messer Antonio da Pantaneto qualsiasi
immunità. E perché mai, altrimenti, mi sarei precipitato qui dal Borgo San
Sepolcro viaggiando di notte e con quel tempaccio? Me ne stavo là, come sapete,
per sorvegliare le mosse di Vitellozzo, ed ecco che vengo a conoscenza d’una
congiura per togliere Arezzo alla Repubblica e darla proprio allo stesso
Vitellozzo. E chi c’è a capo della congiura? Sì, signori, esattamente colui che
chiamate Nerone!»
La meraviglia del Lambardi a queste parole
non poteva apparir più sincera.
«Nobile
Guglielmo, la notizia che ci date è tanto grave quanto incredibile. I Priori ed
io non solo ne siamo dispiaciuti, ma vorremmo aiutarvi a portarne alla luce
ogni particolare e a castigare come si meritano i delinquenti che hanno
concepito un simile disegno».
Stavolta una
meraviglia vera si dipinse sul volto di quelli tra i Priori che erano partecipi
del trattato, e sapevano bene che proprio il Lambardi ne era in realtà a capo.
Più d’uno lo fissò come un vile che si preparava al tradimento.
Il Gonfaloniere
non se ne curò: «Se voleste far condurre qui Nerone e Marcantonio, sapremmo noi
come farli parlare e ritorcere contro di loro l’ira del popolo».
Il richiamo al
tumulto in atto fece sì che il Commissario ponesse di nuovo orecchio al vociare
sempre più inferocito che arrivava dalla piazza. Fra le grida indistinte e gli
insulti contro Firenze e lui stesso, rimbalzavano spesso le parole Nerone! e pane! e libertà! e grani! Come sappiamo, infatti, la gente
d’Arezzo s’era persuasa, grazie alle parole di Presentino, che l’arresto di
Nerone fosse dipeso dal tentativo di difendere le derrate alimentari. Guglielmo
pensò che quando tutto fosse finito avrebbe dovuto convincere i Dieci di Balia
a prender provvedimenti per migliorare le condizioni di vita di quei disperati.
O ad ingrossare di molto la guarnigione fiorentina. Ma per ora occorreva
quietare la folla, e forse la via proposta dal Lambardi poteva funzionare:
perlomeno quegli arrabbiati si sarebbero scannati tra di loro.
Un cenno al
Capitano di Giustizia fu sufficiente perché costui ripartisse verso la
Cittadella a prelevarne i prigionieri.
Quando il popolo vide apparire Nerone, la rabbia
collettiva si mutò in entusiasmo.
«Viva! Bravo! Tieni duro! Pane! Pane!»
«Nerone, difendi i nostri figli!»
«Nerone! Nerone!»
Non sentivo altro che il suo nome acclamato da tutti.
Accidenti che sensazione preoccuparsi per qualcuno!
Una sola volta avevo provato qualcosa di simile, e fu
quando, ancora bambina, guardavo mia madre che stava morendo nel partorire il
suo ultimo figlio. Per fortuna lei non morì. Morì invece il neonato. Stetti
male, allora, nel vederla sul letto, disfatta, bianca, sudata, col respiro che
s’era fatto un rantolo e le occhiaie vuote.
Stavo male ora nel vedermi sfilare davanti Nerone, con
la camicia macchiata di sangue e la bocca tumefatta dalle percosse. Pressata
dalla folla, m’ero fatta largo con la mia cesta sotto braccio ed avevo
conquistato un posto vicino al portone. Quando gli armigeri aprirono un varco
per far passare i prigionieri mi ritrovai in prima fila.
Il mio eroe veniva a piedi, legato dietro un cavallo e
così malconcio da somigliare ad un cristo flagellato, ma per lo sguardo fiero e
la forza delle sue braccia pareva fosse lui a condurre, da terra, il destriero.
Pensai che me lo avrebbero ammazzato, per quel suo orgoglio, prima ancora di
poterlo conoscere davvero. Pure non capivo come s’era messo in quella
situazione.
In una delle ultime visite in San Francesco, mentre mi
guardavo intorno alla sua ricerca facendo finta di pregare, avevo incontrato
Baccio, il ragazzo suo amico.
M’aveva sorriso e s’era avvicinato. «Cose grosse!»
m’aveva detto con entusiasmo. Poi, abbassando la voce e portandosi il dito
davanti alla bocca: «Il nostro Nerone sta per liberare Arezzo, e io sarò con
lui, me l’ha promesso!»
Non ne sapevo niente, dei rapporti tra Aretini e
Fiorentini. In convento certe cose non entrano, e al mio arrivo la città m’era
parsa ben misera, ma non peggiore degli squallidi vicoli romani o delle vie di
Pisa assediata.
Baccio m’aveva parlato confusamente d’una congiura,
raccomandandomi il silenzio, con un’aria da cospiratore assai buffa in un
ragazzo così giovane. Confesso di non averci capito granché e di non aver dato
peso a quelle che credevo fantasticherie.
Adesso Nerone mi passava davanti in catene, voltandosi
a destra e a manca e dispensando sorrisi come un Capitano condotto in trionfo,
convinto che il tumulto fosse tutto per lui, e per la causa di Arezzo.
«Se mi ammazzano» gridò prima di venir sospinto dentro
il portone, «affido a tutti voi l’impresa!»
«Non morire!» gli urlai mentre spariva, e la cesta
ancora una volta mi cadde dalle mani.
Prima della
morte un nuovo interrogatorio aspettava Nerone, condotto al cospetto del
Commissario e dei Priori, e il nocciolo della questione era quella maledetta
storia del cugino.
«Ma come vi devo
dire che ho davvero un cugino in Città di Castello? L’unica mia colpa è di aver
chiesto al qui presente Marcantonio di salutarlo per me, visto che si recava
proprio là».
Ma era difficile
che una bugia così smaccata risultasse convincente e le domande lo pressarono
in una sequela interminabile. Il caldo, reso più afoso dalla cappa nuvolosa che
opprimeva la città, stancava tutti, nel salone e sulla piazza.
«Quelli là
dentro non cavano un ragno dal buco».
Nofrio Roselli,
gli occhi alle grandi finestre ad arco del Palazzo, ebbe un sobbalzo e si voltò
a vedere chi gli parlasse all’orecchio.
Il Visdomini,
quello strano connubio tra un prete, un politico e un vendicatore con la spada
in pugno, lo fissava complice: «I Fiorentini sono nel Palazzo con poca scorta.
Basterà entrare con un buon gruppo di uomini decisi e saranno nostri. Se si
lascia che tornino a rinchiudersi in Cittadella…»
Il Roselli parve
pensarci, ma il prete lo incalzò: «Non c’è via di mezzo. La trattativa è una
frottola: se la congiura va a monte ci ammazzeranno tutti. Dobbiamo andare fino
in fondo, e il momento di agire è ora. Un’occasione così non ci capiterà più».
Era giusto, per
san Donato! Ancora una volta il Visdomini aveva ragione. Bastò un ordine
sussurrato e fatto correre di bocca in bocca: una squadra fece irruzione nella
corte del Palazzo dei Priori e disarmò i pochi fiorentini. Uno di loro sfuggì
alla cattura, schizzò su per le scale ed entrò come una furia nel salone per
far rapporto ad Antonio Marignolle, Capitano della Famiglia di Palazzo, il
quale a sua volta andò a riferire al Capitano di Giustizia, che infine informò
il Commissario sulla nuova situazione. Il Lambardi capì al volo cosa stava
succedendo, ma restò incerto sul da farsi. Anche Nerone aveva capito, e di
slancio s’affacciò al davanzale del portico che dava sulla corte, mostrando le
catene.
«Fratelli miei! Vedete a quel ch’è condotta questa
misera città, e noialtri infelici cittadini; che non solo siamo privi della
libertà di disporre delle nostre poche e proprie provvisioni e facoltà, le
quali di continuo ci vengon tolte con invenzioni di gravezze e calunnie, ma
neppure si possono salutare i parenti! Risentitevi, una volta! E mostrate che
siete vivi, e siete uomini! E difendete la vostra libertà!» (Visdomini).
Al centro del
cortile Nofrio Roselli, circondato dai suoi e ormai convinto che bisognasse
andare fino in fondo, alzò la voce ai due fiorentini che nel frattempo erano
apparsi nel portico al fianco di Nerone, uno di qua e l’altro di là, come due
sbirri: «Non si offenda la persona del Commissario, né del Capitano! Ma sia
libero ognuno!»
«Libertà per
Nerone!» gli fece eco il coro dei suoi.
«Libertà per
Nerone!» gridò il popolo di fuori facendo ressa contro il Palazzo.
«E per conto dei
grani» concluse il Roselli, «viva il Leone e viva Firenze!»
Quelli dei
Priori che erano consapevoli del trattato e tutti i congiurati, nel salone e
nella corte, ruppero allora gl’indugi e si fecero sentire: «Libertà! Libertà!
Palle! Palle!»
«Libertà!
Libertà! Palle! Palle!»
Il grido,
ritmato dalla moltitudine con forza crescente, fece tremare le piccole formelle
piombate alle finestre del Palazzo. Adesso tutto era chiaro per tutti: gli
Aretini non si schieravano contro Firenze, ma contro la Repubblica e
reclamavano il ritorno dei Medici, invocando le sei palle del loro blasone!
Il Visdomini
s’allontanò discretamente dalla piazza. Ora poteva rientrare a casa e mettersi
a tavola, finalmente.
Soltanto,
ripassando davanti alla Pieve, un’ombra gli sfiorò la mente, un pensiero che gli
era venuto fin dall’inizio di quella storia e che più volte aveva scacciato:
peccato che nessuno riuscisse a immaginare la libertà da sola, pensare alla
possibilità che Arezzo tornasse quella d’un tempo, città magari piccola ma
padrona in casa sua, senza il giogo della Repubblica ma anche senza quello dei
Medici. Peccato esser costretti a scegliere il miglior dominatore. O il meno
peggio. Ma queste eran solo le fantasie d’un prete nostalgico. E poi, magari,
con la libertà sarebbero tornate le fazioni, e le lotte feroci famiglia contro
famiglia, nipote contro zio, cugino contro cugino, causa della nostra rovina.
L’Aretino è così: non sa dividere con nessuno la propria libertà. Ognuno è
convinto d’essere il più furbo e il più forte. Forse davvero eran meglio i
Medici. Forse è meglio un buon padrone che nessun padrone.
Se un buon
padrone esiste.
Messer
Presentino era quasi a casa, ma sul colle di San Pietro non era ancora finita.
Un sasso sibilò
sopra le teste e raggiunse al capo l’incolpevole notaio che, a cavallo, stava
ordinando alla gente di disperdersi e tornare alle proprie case.
Il Commissario,
infatti, vista la mala parata, aveva giocato l’ultima carta per imporre la
propria autorità, mandandolo fuori da solo per far deporre le armi al popolo
arrabbiato.
Il sasso, e la
mano violenta del beccaio, lo tirarono giù di sella scaraventandolo sanguinante
contro il muro del Palazzo, proprio ai piedi della Maria, che arretrò
inorridita.
Trascinato
dentro dagli uomini del Roselli, venne consegnato agli sgherri fiorentini, che
lo portarono a braccia su nel salone, più morto che vivo.
Il Lambardi, che
dopo aver snocciolato il suo discorsetto non aveva più aperto bocca, lasciando
andare le cose per il loro corso, decise alla fine da che parte stare e prese
in mano la situazione. Si grattò le cicatrici sulla guancia e ordinò al
Marignolle: «Tenetevi i vostri feriti, Capitano, e portate fuori di qui tutta
la Famiglia»
«Subito!»
insisté davanti allo sbigottimento dell’uomo. «E non dimenticate di lasciare
sul tavolo le chiavi delle Porte di Arezzo: da adesso la città torna libera»
«Non serve che
chiediate al Commissario o al Capitano di Giustizia» precisò ancora, visto che
il Marignolle non si muoveva ed anzi fissava i suoi superiori. «Loro restano
con noi come garanzia di pace. Non vogliamo che si scateni una guerra tra le
vie d’Arezzo, vero, messer Pazzi?»
I due restarono
muti e increduli di fronte ad un epilogo tanto inatteso della vicenda e al
voltafaccia del Gonfaloniere. Alcuni dei Priori li circondarono, costringendoli
a sedersi.
Messer
Cristofano dei Francucci, uno dei più giovani e dei primi ad esser coinvolti
nel trattato, corse ad una delle finestre che davano sulla piazza: «Abbiamo
vinto! Arezzo è liberata! Chi era venuto a signoreggiare in paesi altrui ora è
in nostro potere! Chi ci ha tolto beni e diritti, ora perderà i propri! Al
sacco le loro case! Al sacco!»
Non c’è festa
che basti a descrivere l’esplosione di gioia della piazza alle sue parole; non
c’è rumore di battaglia che eguagli il frastuono di armi bastoni e pentole
battute con forza sulle lastre del selciato; non ci sono grida di fanciulli che
inseguano una palla di pezza a pareggiare il chiasso davanti al Palazzo. Chi
urla chi canta chi balla chi salta chi ride chi, anche, s’inginocchia e piange.
Nella calca il
macellaio si distinse ancora, e non solo per la corporatura: «Riprendiamoci il
nostro! Al sacco la casa del Commissario!»
«E anche quella
del Capitano!» gli fece eco un altro.
«E di tutti i
Fiorentini!»
«E dei traditori
amici loro!»
«Al sacco! Al
sacco!»
Eccitati dalle
loro stesse grida, molti sciamarono dalla piazza, correndo per le stradette
ripide e strette: la caccia selvaggia era partita. Il macellaio si guardò
intorno: del prete dei Visdomini non c’era traccia. Meglio così.
Mentre il Roselli
dava ordine di aprire il deposito delle armi e distribuirle al popolo, il
Francucci, afferrate le chiavi delle Porte, lasciò il palazzo scortato da una
ventina di uomini, per farvi ritorno un’ora dopo con le casse delle Porte
stesse, contenenti i dazi riscossi nella mattinata. Data la chiusura imposta
dal Commissario, quelle casse erano ovviamente quasi vuote, ma vederle lì sul
tavolo insieme alle chiavi metteva comunque di buon umore: era il segno che
l’autorità, adesso, erano loro. Nel suo giro, aveva anche preso in consegna le
guardie fiorentine in servizio alle Porte, che s’erano arrese senza opporre
resistenza, e le aveva rinchiuse nelle segrete del Palazzo di Giustizia,
liberandone gli aretini che vi erano carcerati.
Il Lambardi nel
frattempo, messi sotto chiave il Commissario e il Capitano, aveva radunato
intorno allo stesso tavolo i Priori rimasti, che ormai eran tutti dalla parte
degli insorti, e l’improvvisato Consiglio aveva provveduto a nominare un
cittadino per sovraintendere alle Pubbliche Scritture ed uno alla Vendita del
Sale.
Non era ancora
un governo, ovviamente, ma preparando nella sua mente la rivolta, s’era
immaginato che fossero le cose più urgenti da regolare.
Fuori la razzia
non conosceva freni. I Fiorentini e quelli compromessi con loro s’eran chiusi
in Cittadella, al riparo dalle vendette, lasciando le loro case in balia degli
insorti.
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