giovedì 16 aprile 2020

EPISODIO 21 - SOTTO PROCESSO



Le case dei Cerchi sorgevano in Borgo San Piero, vicine a quelle dei Donati, ma Corso in quel periodo non era in Firenze e Rinaldo dei Bostoli bussò al portone di Vieri dei Cerchi.

Quando l’avevano chiamato sulle mura nei paraggi di Porta Romana, la sera del falò di San Donato in Collina, ne era rimasto quasi contento: questo è un attacco diretto, pensò, e alla fine i Priori dovranno reagire.
Fu quello che disse al tranquillo Vieri, che lo accolse nella saletta dove finiva di cenare e gli offrì un calice d’ippocrasso.
«Non vi date pena» gli rispose il fiorentino. «Avrete notato che le difese alle mura son già rinforzate».
Rinaldo non credeva alle proprie orecchie: «Preferite dunque che gli Aretini portino la guerra sotto le vostre mura piuttosto che attaccar le loro?»
«Non vi sarà nessuna guerra».
Questa per il Bostoli non era una bella notizia: «Se Corso fosse qui!»
«Messer Donati sta bene dov’è» tagliò corto Vieri, «e se fossi in voi non ci farei troppo affidamento»
«Pensateci voi, dunque!» replicò Rinaldo. «Per quale scopo avete messo in piedi la Lega Guelfa, altrimenti, e perché avete tirato dentro anche noi esuli?»
«Ci sono molti modi per ottenere uno scopo. Vi confermo che in Arezzo ci tornerete, ma ci vuol pazienza»
«Se avverrà, dubito che sia per merito vostro, se neppure una provocazione come quella di oggi riesce a smuovervi».
Si alzò ed uscì senza finire il vino e senza salutare. A quanto pareva il falò di San Donato aveva bruciato anche le sue speranze. E Corso? Cosa passava per la mente di quel diavolo? Perché abbandonar Firenze proprio in quel momento.
In effetti il Donati poco prima s’era fatto nominare Capitano del Popolo a Pistoia, quasi volesse tirarsi fuori dalle risse fiorentine. Ma Rinaldo, e con lui quasi tutti nella città del giglio, non credeva ad una resa così, senza motivo: non era nel carattere del personaggio, ecco. Doveva per forza esserci dell’altro.
Quello che il Bostoli non sapeva era che sulla montagna pistoiese c’erano le ferriere, e le ferriere producevano armi, e il possesso delle armi voleva dir potere, in Pistoia come in Firenze.

"Mauro dei Mauri, il ribelle! Portate ancora la veste da donzello e già avete l’ardire di rivoltarvi, e puntate addirittura le armi contro i vostri compagni e i vostri superiori!»
«Veramente…»
«Silenzio!»
Guglielmo Pazzo tuonava misurando a gran passi la larghezza del padiglione di comando, mani dietro la schiena e sguardo torvo. L’oste aretina s’era ritirata e aveva spostato il campo fuori delle mura amiche di Fegghìne. La spedizione, che doveva esser risolutiva e cacciare per sempre i Fiorentini da Arezzo e dal Valdarno, era già finita. La cavalcata sul San Donato e il grande falò avevano soddisfatto i Capitani, convincendoli a togliere l’assedio all’Ancisa e rimandare a casa le masnade. Fatta eccezione per lo scontro inglorioso con i contadini, non c’era stata battaglia.
Guglielmo non aveva spiegato la decisione di rientrare, ma si vociferava che l’ordine fosse arrivato da Arezzo e che lui stesso ne fosse rimasto contrariato.
Comunque s’erano ritirati, e l’indomani la spedizione si sarebbe sciolta. In una sera tornata a farsi scura, Mauro era stato convocato per render conto della sua ribellione.
Nella grande tenda erano in tre: Guglielmo, suo fratello Ubertino e l’accusato.
«Silenzio, se non vi si interroga! Non vi rendete conto della gravità del vostro gesto? Chi si può fidare di uno che punta le armi contro il proprio esercito?»
Non c’erano altri imputati, per quell’atto d’accusa: troppo potenti gli Azzi perché l’appoggio fornito da Boso potesse venir censurato, e troppo giovane Ghigo per esser perseguito.
«È questo, il vostro concetto d’onore, di fedeltà, di disciplina? Per questo siete stato fatto cavaliere?»
«Vedi, Guglielmo» Ubertino cercò di prender le difese del giovane, ma fu interrotto dallo stesso Mauro con voce stranamente ferma, che non tradiva punto il subbuglio interiore.
«Per l’onore di oppormi al disonore, per difendere il debole contro il prepotente, per dare lustro alle insegne della mia casata. Per questo sono stato fatto cavaliere».
S’aspettava un’esplosione di collera, ed invece Guglielmo non reagì, osservando l’ardire di Mauro e ammirandone in cuor suo la pacatezza.
«T’ho detto che è merito suo se lo scontro s’è risolto subito in nostro favore» riprese Ubertino.
«Questo non sminuisce la gravità del suo comportamento»
«Come hai sentito è un giovane pieno di ideali»
«Che deve imparare cos’è la guerra!»
«E cos’è dunque?» Mauro non seppe trattenersi. «Infierire su prigionieri disarmati? Bruciar le case? Violentar le donne?»
Il viso già alterato di Guglielmo avvampò, mentre si portava sul giovane, che istintivamente arretrò: «Cosa pensate che faccia, il nemico, se vince?» Il giovane deglutì, ma ribatté: «E c’è gloria, in tutto questo?»
Il vecchio riprese a girare, torvo, e Mauro rinfrancato insisté: «Ditemi, Capitano, a cosa è servita questa spedizione? E cosa ha prodotto ai nostri nemici l’assedio di Arezzo dell’anno passato, costato ai Senesi la disfatta del Toppo e a mio padre tre dita della mano destra? E pure la battaglia di Montaperti, e le scaramucce, le cavalcate, i saccheggi che durano ormai da decenni?»
«Siete dunque contro la guerra?»
«Non lo so, ma di sicuro non sono contro la pace e altrettanto sicuramente mi ribello ai soprusi».
Guglielmo parve riflettere. Era colpito dalla fierezza di Mauro ma altrettanto convinto dell’importanza assoluta della disciplina. Lo guardò: «Come ha riferito mio fratello, vi siete battuto valorosamente. Questo vi risparmia la punizione che avreste meritato, ma con codeste idee non sarete mai un buon cavaliere: la guerra è brutta, ma proprio per questo esaltante! Quando si combatte conta una cosa sola: prevalere!» S’avvicinò di nuovo: «Spero di non dovervi mettere ancora alla prova, in futuro. Non mi fido di voi. Andate!»
Mauro si congedò con un leggero inchino.
«Gli hai tenuto testa, eh?» Ghigo lo abbracciò entusiasta.
Oddo mise un ginocchio a terra davanti al suo padrone.
«Oddo, che fate?»
«Rendo onore al mio signore. Così si comporta un vero nobile! Vostro padre avrà di che esser fiero!»
«Ma come fate a sapere cos’è successo là dentro?»
«Le tende hanno tessuto sottile e il campo mille orecchie» proclamò Boso, arrivando a gran passi. Ghigo lo guardava ancora, colmo d’ammirazione: «E poi credi che se t’avesse umiliato, o peggio condannato, saresti uscito così a testa alta?»
«Sì, sì, dici bene, ma temo di essermi giocato con questa storia la stima e la fiducia di quelli che contano, in Arezzo. Guglielmo lo ha detto chiaramente, e il Vescovo suo zio non ragiona certo in modo diverso»
«Che t’importa?» lo sostenne Boso «Avrai per questo tanti altri amici e la stima dei migliori!»
«Credo» intervenne Oddo «che in fondo anche Guglielmo rispetti il coraggio del mio padrone».

Nessun commento:

Posta un commento