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Le
case dei Cerchi sorgevano in Borgo San Piero, vicine a quelle dei Donati, ma
Corso in quel periodo non era in Firenze e Rinaldo dei Bostoli bussò al portone
di Vieri dei Cerchi.
Quando
l’avevano chiamato sulle mura nei paraggi di Porta Romana, la sera del falò di
San Donato in Collina, ne era rimasto quasi contento: questo è un attacco
diretto, pensò, e alla fine i Priori dovranno reagire.
Fu
quello che disse al tranquillo Vieri, che lo accolse nella saletta dove finiva
di cenare e gli offrì un calice d’ippocrasso.
«Non
vi date pena» gli rispose il fiorentino. «Avrete notato che le difese alle mura
son già rinforzate».
Rinaldo
non credeva alle proprie orecchie: «Preferite dunque che gli Aretini portino la
guerra sotto le vostre mura piuttosto che attaccar le loro?»
«Non
vi sarà nessuna guerra».
Questa
per il Bostoli non era una bella notizia: «Se Corso fosse qui!»
«Messer
Donati sta bene dov’è» tagliò corto Vieri, «e se fossi in voi non ci farei
troppo affidamento»
«Pensateci
voi, dunque!» replicò Rinaldo. «Per quale scopo avete messo in piedi la Lega
Guelfa, altrimenti, e perché avete tirato dentro anche noi esuli?»
«Ci
sono molti modi per ottenere uno scopo. Vi confermo che in Arezzo ci tornerete,
ma ci vuol pazienza»
«Se
avverrà, dubito che sia per merito vostro, se neppure una provocazione come
quella di oggi riesce a smuovervi».
Si
alzò ed uscì senza finire il vino e senza salutare. A quanto pareva il falò di San
Donato aveva bruciato anche le sue speranze. E Corso? Cosa passava per la mente
di quel diavolo? Perché abbandonar Firenze proprio in quel momento.
In
effetti il Donati poco prima s’era fatto nominare Capitano del Popolo a Pistoia,
quasi volesse tirarsi fuori dalle risse fiorentine. Ma Rinaldo, e con lui quasi
tutti nella città del giglio, non credeva ad una resa così, senza motivo: non
era nel carattere del personaggio, ecco. Doveva per forza esserci dell’altro.
Quello
che il Bostoli non sapeva era che sulla montagna pistoiese c’erano le ferriere,
e le ferriere producevano armi, e il possesso delle armi voleva dir potere, in
Pistoia come in Firenze.
"Mauro
dei Mauri, il ribelle! Portate ancora la veste da donzello e già avete l’ardire
di rivoltarvi, e puntate addirittura le armi contro i vostri compagni e i
vostri superiori!»
«Veramente…»
«Silenzio!»
Guglielmo
Pazzo tuonava misurando a gran passi la larghezza del padiglione di comando,
mani dietro la schiena e sguardo torvo. L’oste aretina s’era ritirata e aveva
spostato il campo fuori delle mura amiche di Fegghìne. La spedizione, che
doveva esser risolutiva e cacciare per sempre i Fiorentini da Arezzo e dal Valdarno,
era già finita. La cavalcata sul San Donato e il grande falò avevano
soddisfatto i Capitani, convincendoli a togliere l’assedio all’Ancisa e
rimandare a casa le masnade. Fatta eccezione per lo scontro inglorioso con i
contadini, non c’era stata battaglia.
Guglielmo
non aveva spiegato la decisione di rientrare, ma si vociferava che l’ordine
fosse arrivato da Arezzo e che lui stesso ne fosse rimasto contrariato.
Comunque
s’erano ritirati, e l’indomani la spedizione si sarebbe sciolta. In una sera
tornata a farsi scura, Mauro era stato convocato per render conto della sua
ribellione.
Nella
grande tenda erano in tre: Guglielmo, suo fratello Ubertino e l’accusato.
«Silenzio,
se non vi si interroga! Non vi rendete conto della gravità del vostro gesto?
Chi si può fidare di uno che punta le armi contro il proprio esercito?»
Non
c’erano altri imputati, per quell’atto d’accusa: troppo potenti gli Azzi perché
l’appoggio fornito da Boso potesse venir censurato, e troppo giovane Ghigo per
esser perseguito.
«È
questo, il vostro concetto d’onore, di fedeltà, di disciplina? Per questo siete
stato fatto cavaliere?»
«Vedi,
Guglielmo» Ubertino cercò di prender le difese del giovane, ma fu interrotto
dallo stesso Mauro con voce stranamente ferma, che non tradiva punto il
subbuglio interiore.
«Per
l’onore di oppormi al disonore, per difendere il debole contro il prepotente,
per dare lustro alle insegne della mia casata. Per questo sono stato fatto
cavaliere».
S’aspettava
un’esplosione di collera, ed invece Guglielmo non reagì, osservando l’ardire di
Mauro e ammirandone in cuor suo la pacatezza.
«T’ho
detto che è merito suo se lo scontro s’è risolto subito in nostro favore»
riprese Ubertino.
«Questo
non sminuisce la gravità del suo comportamento»
«Come
hai sentito è un giovane pieno di ideali»
«Che
deve imparare cos’è la guerra!»
«E
cos’è dunque?» Mauro non seppe trattenersi. «Infierire su prigionieri
disarmati? Bruciar le case? Violentar le donne?»
Il
viso già alterato di Guglielmo avvampò, mentre si portava sul giovane, che
istintivamente arretrò: «Cosa pensate che faccia, il nemico, se vince?» Il
giovane deglutì, ma ribatté: «E c’è gloria, in tutto questo?»
Il
vecchio riprese a girare, torvo, e Mauro rinfrancato insisté: «Ditemi, Capitano,
a cosa è servita questa spedizione? E cosa ha prodotto ai nostri nemici
l’assedio di Arezzo dell’anno passato, costato ai Senesi la disfatta del Toppo
e a mio padre tre dita della mano destra? E pure la battaglia di Montaperti, e
le scaramucce, le cavalcate, i saccheggi che durano ormai da decenni?»
«Siete
dunque contro la guerra?»
«Non
lo so, ma di sicuro non sono contro la pace e altrettanto sicuramente mi
ribello ai soprusi».
Guglielmo
parve riflettere. Era colpito dalla fierezza di Mauro ma altrettanto convinto
dell’importanza assoluta della disciplina. Lo guardò: «Come ha riferito mio
fratello, vi siete battuto valorosamente. Questo vi risparmia la punizione che
avreste meritato, ma con codeste idee non sarete mai un buon cavaliere: la
guerra è brutta, ma proprio per questo esaltante! Quando si combatte conta una
cosa sola: prevalere!» S’avvicinò di nuovo: «Spero di non dovervi mettere
ancora alla prova, in futuro. Non mi fido di voi. Andate!»
Mauro
si congedò con un leggero inchino.
«Gli
hai tenuto testa, eh?» Ghigo lo abbracciò entusiasta.
Oddo
mise un ginocchio a terra davanti al suo padrone.
«Oddo,
che fate?»
«Rendo
onore al mio signore. Così si comporta un vero nobile! Vostro padre avrà di che
esser fiero!»
«Ma
come fate a sapere cos’è successo là dentro?»
«Le
tende hanno tessuto sottile e il campo mille orecchie» proclamò Boso, arrivando
a gran passi. Ghigo lo guardava ancora, colmo d’ammirazione: «E poi credi che
se t’avesse umiliato, o peggio condannato, saresti uscito così a testa alta?»
«Sì,
sì, dici bene, ma temo di essermi giocato con questa storia la stima e la
fiducia di quelli che contano, in Arezzo. Guglielmo lo ha detto chiaramente, e
il Vescovo suo zio non ragiona certo in modo diverso»
«Che
t’importa?» lo sostenne Boso «Avrai per questo tanti altri amici e la stima dei
migliori!»
«Credo»
intervenne Oddo «che in fondo anche Guglielmo rispetti il coraggio del mio
padrone».
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