In un mattino chiaro di
primavera, ai primi di maggio del 1502, Nerone cavalcava in silenzio sulla tortuosa strada che discende la
valle del Cerfone, diretto però non a casa sua ma a Città di Castello.
Al suo fianco, muto
anch’egli ma con l’impazienza negli occhi, Bernardino Burali. L’uomo entrato di
corsa in San Francesco, suscitando la curiosità di Maria e delle altre donne,
era lui, e il morto ancora vivo era suo cugino Bernardino Camaiani, quello un
po’ armigero un po’ mercante fatto prigioniero l’anno prima da Vitellozzo a
Modigliana.
S’erano chiesti, in
quel colloquio che Maria non aveva potuto ascoltare, perché Vitellozzo lo
avesse risparmiato, e come mai per tutto l’inverno non se ne fosse saputo
niente, e la richiesta di riscatto fosse invece arrivata proprio ora, con tanto
ritardo.
Nerone aveva
consigliato all’amico di confidarsi col Lambardi, che a detta del prete
Visdomini era in Arezzo il più informato sulle mosse di Vitellozzo, e che
proprio in quei giorni i congiurati erano riusciti a far eleggere alla carica
di Gonfaloniere, ma il Burali aveva paura che a metter in mezzo troppa gente si
facesse il male del cugino. Dei parenti non si fidava. S’era fatto avanti il
suocero del Camaiani, ma era un Tondinelli, gente nuova in Arezzo e partigiani
dei Fiorentini.
Non gli restava che
Nerone, il quale alla richiesta s’era allarmato: «Non penserai che io disponga
dei mezzi necessari a pagare un riscatto»
«No, no. Non ti chiedo
questo, ma ho bisogno di qualcuno che mi accompagni e mi sostenga nella trattativa».
Nerone non aveva saputo
dirgli di no e adesso cavalcava con l’animo di chi va a ficcarsi nella tana del
lupo.
Vi arrivarono a
pomeriggio inoltrato, ancora in tempo per cercar notizie del Camaiani. Entrati
dalla Porta di San Florido, lasciarono i cavalli nella stalla della prima
locanda che videro, s’accordarono con l’oste per la cena e la notte, e si
diressero subito verso il palazzo del Podestà.
Nerone teneva dietro
all’amico senza troppa convinzione. Il Burali, come gli aveva spiegato per via,
intratteneva rapporti commerciali anche in Città di Castello e confidava su
queste buone conoscenze.
Si fermarono davanti ad
un fondaco, vicino alla piazza del Duomo. Pezze di stoffa di varie qualità
erano stese sui davanzali laterali della porta e si intravedevano appese
all’interno del locale; rotoli della medesima altezza ma di vario diametro
erano appoggiati alle pareti o giacevano sul pavimento di legno. Il Burali mise
dentro la testa e dette una voce al vecchio mercante intento a tagliare una
pezza di fustagno color della terra, dispiegata sul bancone.
«Ehilà, Biagio, come
state?»
Sorpreso dalla voce che
non udiva da un pezzo, il vecchio levò gli occhi dal tessuto, sostenne la
propria schiena, sfilò dal naso i piccoli occhiali e rispose al saluto con un
sorriso che mise in mostra i pochi denti rimasti tra due labbra rinsecchite.
«Caro Bernardino, siete voi!? Quanto tempo che non vi si vede! Come volete che
stia un vecchio mercante che non riesce più a frenare il tremito delle mani
neppur quando taglia? Entrate, entrate. Cosa vi porta a Città di Castello?
Sempre in affari, eh?»
«Questa volta no, amico
mio» replicò il Burali assecondando il gesto del suo ospite che lo invitava a
sedersi su uno sgabello, mentre Nerone rimase prudentemente in piedi sulla
soglia. «Son qui per problemi di famiglia, e spero che possiate aiutarmi. Mio
cugino si trova in città, prigioniero di Vitellozzo, e vorrei riportarlo a
casa»
«Ah, già! Ho saputo
d’un aretino catturato a Modigliana, ma non immaginavo fosse vostro parente.
Eh, questi Vitelli sono uno più pazzo dell’altro!»
Nerone gettò
un’occhiata nel vicolo, mentre Bernardino sussurrava al mercante: «Come potete
parlare così? Non avete paura che vi sentano? Mi risulta che i Vitelli siano
molto potenti»
«Oh, se è per quello,
qui son padroni e niente si fa che non sia voluto o almeno approvato da loro. E
devo ammettere che la città prospera. Si fanno affari e si costruiscono nuovi palazzi,
ma a me non piacciono lo stesso e lo dico apertamente: troppo prepotenti e un
giorno o l’altro saranno la nostra rovina. In città sanno tutti come la penso,
anche lor signori, ma mi ignorano o mi sopportano: vengo considerato un vecchio
innocuo e senza seguito. Quello che mi fa più rabbia è che hanno ragione. Sul seguito,
voglio dire. Vi accorgerete che qui son tutti ai loro piedi».
Nerone si grattò la
testa. Se il suo amico sperava aiuto da quell’uomo, non erano certo ben messi.
Lo stesso Biagio s’incaricò di dar conferma ai suoi dubbi. «Non posso dirvi che
intercederò per voi. Nella mia posizione vi farei del male. Tuttavia non ho
solo nemici, in città, e se volete posso farvi ottenere un colloquio col
Capitano di Giustizia»
«E’ già qualcosa,
Biagio, grazie. Per lo meno potremo capire il motivo di questa prigionia. Mio
cugino è un così brav’uomo!»
«Come voi, del resto,
amico mio. Ma non vi ho ancora offerto da bere. Immagino che siate appena
giunto da Arezzo e un bicchiere di quello buono vi rinfrancherà».
Ciò detto, si allungò
verso uno stipo e ne trasse una brocca e tre boccali di legno.
«Grazie, ma vorrei
parlare subito col Capitano, se possibile»
«Capisco la vostra
fretta, ma per oggi è tardi, ormai. Combinerò per domattina e nel frattempo una
buona bevuta non potrà che farci bene».
Il sole basso gettava
una scia di luce calda sul vicolo. Nerone s’avvicinò a prendere il suo boccale
dalle mani del vecchio, pensando che in effetti ci voleva anche una buona cena.
«Non so dirvi niente
del vostro parente. Mi è stato affidato in custodia al ritorno dalla spedizione
di Modigliana, con la raccomandazione di trattarlo bene, e vi assicuro che così
è stato fatto». Il massiccio Capitano se ne stava piantato in piedi, con l’aria
scocciata di chi non ha potuto evitare un colloquio sgradito.
«Ma siete voi che
amministrate la giustizia, no? E dunque com’è possibile che tenete un
prigioniero senza nemmeno sapere di cosa lo si accusa, e se ci sarà un processo
e quando?»
«Calmatevi, messer
Burali. La sorte del vostro uomo non dipende da me e non posso dirvi di più»
«Messer Camaiani è
cittadino d’Arezzo ed estraneo ai fatti di Modigliana» intervenne Nerone
deciso, «ed anche noi lo siamo». Neppure la notte aveva stemperato in lui il
fastidio d’una missione che gli si confermava sempre più inutile e suscettibile
di diventar pericolosa. Di fronte alla freddezza del Capitano non si trattenne:
«I signori di Città di Castello dovranno rispondere di questa detenzione alle
nostre autorità, e immagino, per conseguenza, alle autorità fiorentine. Fateci
dunque parlare con chi ci possa fornire le risposte che cerchiamo».
Il Capitano replicò
duro: «Io non posso farvi avere nessun colloquio. Tuttavia sono in grado di
darvi un consiglio: meno polverone fate, e meglio sarà per il prigioniero»
«E dunque cosa ci
suggerite?» chiese il Burali con tono più accomodante.
«C’è una sola cosa da
fare, in questi casi: avanzare istanza di liberazione ed aspettarne l’esito»
Nerone non ne poteva
più, d’una simile pantomima: «Sì, perdio, ma a chi dobbiamo presentarla,
codesta istanza? Potete dircelo, almeno questo?»
«Siete un ingenuo o
fate finta di esserlo? A chi volete presentarla, se non al signore di questa
città?»
«A Vitellozzo?»
«Benvenuti nello stato
tifernate. È stato un piacere incontrarvi». Il Capitano compì un rapido giro su
se stesso ed uscì dalla sala d’armi senza aggiungere altro, lasciandoli a
guardarsi, Nerone arrabbiato e l’altro interdetto.
E interdetto restò lo
stesso Nerone quando, il giorno dopo, giunse inatteso alla loro taverna un
invito a presentarsi al cospetto di Vitellozzo, nel suo nuovo palazzo di città.
Originaria della
Mattonata, il quartiere meridionale del borgo, la famiglia Vitelli aveva
cominciato a costruire case e chiese una quarantina d’anni prima, col chiaro
intento di render visibile il proprio potere, e quella strana commistione di
volontà costruttiva e frenesia distruttrice ancora continuava, dando alla consorteria
ogni giorno più forza e ricchezza.
Nerone entrò nella
grande sala dietro al Burali, il quale a sua volta seguiva un anziano servo
vestito della livrea dei suoi nobili padroni. Vi trovarono schierata una
piccola corte. Vitellozzo sedeva al centro della parete di fondo, su di un
tronetto di legno intarsiato, dal quale si dipartiva una doppia fila di uomini
d’arme, una dozzina per lato, che fissavano i nuovi arrivati con sguardi fieri
e un po’ supponenti.
Nerone notò che non
c’erano donne, e corresse la prima impressione: più che una corte, pareva un
consiglio di guerra. Poi si concentrò sull’aspetto massiccio e sgraziato del
padrone di casa. Era la prima volta che lo incontrava, ma sentendo tutte le
scelleratezze che si dicevano sul suo conto, se l’era immaginato più o meno
come ora lo vedeva: una postura un volto uno sguardo fatti apposta per incutere
timore, una persona da cui puoi aspettarti di tutto meno che pietà o
comprensione. Nerone si chiese quanto di quella durezza fosse innata, quanto
invece atteggiamento voluto, e quanto infine vi avessero contribuito le vicende
familiari.
«Bernardino!»
Il grido del Burali lo
scosse dal rapido esame. L’amico aveva riconosciuto suo cugino nell’uomo in
piedi alla sinistra di Vitellozzo. Rasato, ben vestito e dal consueto aspetto
florido, il Camaiani, dopo un’occhiata d’intesa con Vitellozzo, scese i gradini
e si fece loro incontro con un largo sorriso, abbracciando il parente.
«Come potete costatare
non si sta male, nelle mie prigioni!» Una fragorosa risata dei subalterni
sottolineò la battuta di Vitellozzo.
Il Camaiani cercò di
dare risposta alle tante domande che non volevano uscire dalla bocca del
cugino: «In realtà sono ospite, in questa casa. Oddio, non che ci sia venuto di
mia volontà, intendiamoci, ma…»
«Diciamo che il nostro
incontro a Modigliana» proseguì per lui Vitellozzo «mi ha fornito un’occasione
che non potevo lasciarmi sfuggire. D’accordo, mi sono servito di vostro cugino,
e a dire il vero me ne servo ancora. Col suo consenso, però, come sta cercando
di dirvi».
Nerone non ci si
raccapezzava, e con lui lo stesso Burali: «Continuo a non capire»
«Vedete, avevo bisogno
di parlare con voi e con altri Aretini d’un certo rango senza che si sapesse
troppo in giro. Mi spiego?»
«Non molto» intervenne
Nerone alzando il mento in un moto d’orgoglio, ma ebbe l’impressione che
Vitellozzo fosse deluso dalla sua uscita, come se ignorasse qualcosa che invece
avrebbe dovuto conoscere.
«Via, non mi direte che
in Arezzo non si parla di me e delle mie azioni contro Firenze!»
«Per questo sì, se ne
parla. Come vi muovete, lasciate una scia di sangue che vi rende tristemente
famoso».
Un mormorio di biasimo
accolse l’attacco di Nerone, ma Vitellozzo non si scompose: «Spero che tra
codesti tristi ci siano anche i Fiorentini. Non ho abbastanza potere per farmi
amare, e allora ho scelto di farmi temere. Sono un condottiero, non un frate:
cercate di tenerlo a mente».
Nerone rinunciò a
replicare.
«Dunque. Le cose stanno
così: con alcuni amici piuttosto potenti ho progettato di liberare Arezzo dal
giogo fiorentino».
«Un primo passo verso
Firenze, immagino» precisò Nerone.
«Questo, nelle mie
intenzioni. Però, vedete, se pure non mi riuscisse aver ragione della
Repubblica Fiorentina, sarebbe per me interesse vitale avere tra il mio stato e
i mercanti del Giglio una Arezzo di nuovo libera e forte»
«E magari sotto il
vostro controllo»
«Mi basterebbe avervi
alleati. Ora basta, però. Non voglio rovinare la festa ai vostri amici. Sarà lo
stesso Camaiani a spiegarvi tutto, più tardi, e se avrete ancora dubbi potrete
tornare a trovarci quando vorrete. La scusa non vi mancherà, dal momento che il
vostro parente resterà ancora mio ospite». Fece una pausa. «Ovviamente se lui
lo vorrà» concluse con un’occhiata sorniona.
«Beh, cugino» confermò
il Camaiani, «lo devo alla nostra famiglia e alla città. E poi» proseguì
abbassando la voce, «il rapporto coi Vitelli promette bene, per i nostri affari».
Ma Nerone, che di
affari in ballo non ne aveva, voleva vederci chiaro: «Per quanto mi riguarda,
non me ne andrò finché non ci avrete detto cos’avete in mente».
Vitellozzo ebbe un moto
di stizza che gli provocò un attacco di tosse, soffocato subito nell’ampia
manica della veste di seta. Poi finse d’ignorare la pretesa di Nerone: «Come ho
detto mi sembra giusto festeggiare l’insperato incontro fra cugini. E siccome
non voglio esser di troppo, vi ho fatto preparare un piccolo banchetto in una
sala riservata, dove potrete mangiare e bere indisturbati. A presto, signori».
Lasciò il salone
riverito dai cortigiani, e il servo in livrea invitò gli aretini a seguirlo.
Poco dopo, intorno ad
una tavola riccamente imbandita, il Camaiani riferì loro del trattato di San
Casciano, ne illustrò le clausole e fece i nomi degli Aretini coinvolti, gli
stessi del resto che Nerone immaginava, almeno per quel che riguardava il prete
dei Visdomini e lo Sfregiato dei Lambardi.
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