La mattina del 2 di giugno, un giovedì, nella Cittadella di Arezzo il Commissario Guglielmo de’ Pazzi stava leggendo preoccupato un dispaccio
che gli era appena arrivato da Firenze.
«Chiamatemi il Capitano di Giustizia» ordinò appena
finito di leggere, e quando messer Alessandro Galilei gli fu davanti, lo
informò: «Parto per il Borgo San Sepolcro. Brutte notizie, dalla Valle del
Tevere: pare che il Vitelli ammassi truppe. Prendo con me dei soldati ma conto
d’esser di ritorno nel giro di qualche giorno. Devo solo rendermi conto della
situazione e riferire»
«Va bene. Penserò io alla guarnigione, in vostra
assenza».
Venerdì 3 di giugno densi nuvoli bassi oscuravano il
sole che nelle ultime settimane aveva allietato le dolci colline toscane. La
cappa portava con sé un anticipo d’afa estiva. Al Borgo San Sepolcro, lungo
l’alto corso del Tevere, il caldo si faceva sentire, ma nel pieno del giorno le
massicce mura del Forte offrivano una frescura non disprezzabile. La struttura
militare, vecchia di quasi duecento anni, era alquanto mal ridotta e le sue stanze,
anche quelle di comando, piccole buie e arredate in modo spartano. La frescura,
appunto, era l’unica nota positiva d’un soggiorno altrimenti scomodo, e
Guglielmo de’ Pazzi non vedeva l’ora di tornarsene ad Arezzo.
In piedi, ascoltava impaziente il racconto d’un
giovane agitato, che teneva il capo esageratamente basso davanti a lui e lo
guardava di tanto in tanto con soggezione e paura, cercando di capire se quello
che diceva facesse piacere al Commissario o ne potesse scatenare
l’imprevedibile collera. La stanza era scarsamente illuminata e la poca luce
filtrava da due finestre alte e strette, poco più che feritoie, come gli occhi
indagatori di Guglielmo puntati sul ragazzo.
«Dunque, a tuo dire, Vitellozzo non ha mire sul
Borgo San Sepolcro»
«Non ho detto questo, signore. Quello che ho udito,
e che subito son corso qui a riferirvi, è che vi sono trame per liberare Arezzo
dai Fiorentini»
«Per ordire una ribellione, vorrai dire!»
«Come volete voi, signore. Io non mi so spiegare
bene, ma questa è la verità. Non sarà una semplice scorreria. Vitellozzo
marcerà su Arezzo, e gli Aretini gli apriranno le porte»
«E tu, ragazzo… come hai detto che ti chiami?»
«Aurelio, signore. Aurelio di Tommaso».
Lo schianto d’un fulmine lanciò dalle feritoie un
lampo di luce abbagliante nella stanza. Il ragazzo trasalì.
«E tu, Aurelio di Tommaso, come hai appreso la notizia?»
«Io sono, vedete, molto in confidenza col figliolo
di Bernardino Camaiani, che è stato…»
Lo scroscio del temporale si mischiò al brontolio di
tuoni insistiti e non troppo lontani.
«Lo so, è stato prigioniero di Vitellozzo»
«Solo per finta, signore. In verità, vedete, lo
tratteneva per aver modo di parlare con gli Aretini che andavano a chieder la
sua liberazione, e tirarli in lega»
«Ingegnoso, se fosse vero»
«E’ la pura verità, ve lo giuro. Se non mi credete,
fatevelo dire da messer Marcantonio»
«Marcantonio chi?»
«Marcantonio Romani, di Biagio. È mercante anche
lui, e amico del Camaiani, e di me parente»
«E per quale motivo, se tu sei in amicizia e
parentela con costoro, avresti deciso di tradirli?»
«Io non ho niente contro di loro, ma voglio tornare
a casa mia senza dovermi nascondere, e ora non posso farlo. Vitellozzo mi ha
bandito da Città di Castello, e se ci rimetto piede mi fa impiccare senza
pensarci due volte. Quello è un demonio!»
«Cos’hai combinato? Non si dà il bando a un ragazzo
senza motivo!»
Spirali di vento fradicio di pioggia s’infiltrarono
nella stanza e avvolsero Aurelio, che rabbrividì.
«Niente, ve lo giuro!»
«Basta! Smetti di giurare, verme! Controllerò le tue
informazioni e prega che risultino vere, perché altrimenti sarò io ad impiccarti,
e lo farò personalmente. Adesso vai! Quando hai detto che torneranno in Arezzo,
il figlio del Camaiani e codesto tuo messer Marcantonio?»
«A quest’ora saranno già a casa, signore. Infatti,
mentre io partivo da Città di Castello per venire qui, loro cavalcavano verso
Arezzo»
«Bene, ragazzo. Va’ giù nelle cucine e fatti dare un
pezzo di pane, ché mi sembri tutto pelle e ossa. Ma non aspettarti altra ricompensa.
Non mi piacciono i traditori e le spie, nemmeno se lo fanno per me».
Il ragazzo fece per andarsene, ma Guglielmo ci
ripensò: «Dimmi ancora una cosa. Non hai per caso sentito dai tuoi diciamo
amici il nome di qualche altro congiurato?»
«No, io…»
«Bada, Aurelio! La corda per il tuo collo è bell’e
pronta!»
«Solo uno, signore, solo uno»
«E dimmelo, dunque!»
«Un nome strano. Un soprannome, credo»
Il Commissario mosse un passo verso il ragazzo.
Pose mano alla spada: «Vuoi dirmelo, o no?»
Aurelio alzò le braccia a proteggersi il volto e
mormorò con un fil di voce: «Nerone, credo»
«Come!?»
«Nerone, signore»
«Nerone… Nerone da Pantaneto, sicuramente! Quel
villano ignorante! Bene, ora puoi andare. Anzi no!» Il cuore balzò in gola al
ragazzo. «Ho cambiato idea. Verrai con me ad Arezzo, e vedremo se hai detto la
verità».
Un’ora dopo il Commissario cavalcava sulla strada di
Arezzo. Pioveva ancora, o per meglio dire diluviava. Una tempesta di vento e
acqua che durava da ore e non accennava a calmarsi, impedendo a tratti anche di
distinguer la via. In mezzo al drappello di soldati c’era anche Aurelio, una
mano legata alla sella mentre l’altra reggeva il tozzo di pane promesso da
Guglielmo. Aveva fame ma non mangiava, e il pane s’era ormai zuppato.
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