giovedì 16 aprile 2020

CAPITOLO 21 - LA SPIA


La mattina del 2 di giugno, un giovedì, nella Cittadella di Arezzo il Commissario Guglielmo de’ Pazzi stava leggendo preoccupato un dispaccio che gli era appena arrivato da Firenze.
«Chiamatemi il Capitano di Giustizia» ordinò appena finito di leggere, e quando messer Alessandro Galilei gli fu davanti, lo informò: «Parto per il Borgo San Sepolcro. Brutte notizie, dalla Valle del Tevere: pare che il Vitelli ammassi truppe. Prendo con me dei soldati ma conto d’esser di ritorno nel giro di qualche giorno. Devo solo rendermi conto della situazione e riferire»
«Va bene. Penserò io alla guarnigione, in vostra assenza».

Venerdì 3 di giugno densi nuvoli bassi oscuravano il sole che nelle ultime settimane aveva allietato le dolci colline toscane. La cappa portava con sé un anticipo d’afa estiva. Al Borgo San Sepolcro, lungo l’alto corso del Tevere, il caldo si faceva sentire, ma nel pieno del giorno le massicce mura del Forte offrivano una frescura non disprezzabile. La struttura militare, vecchia di quasi duecento anni, era alquanto mal ridotta e le sue stanze, anche quelle di comando, piccole buie e arredate in modo spartano. La frescura, appunto, era l’unica nota positiva d’un soggiorno altrimenti scomodo, e Guglielmo de’ Pazzi non vedeva l’ora di tornarsene ad Arezzo.
In piedi, ascoltava impaziente il racconto d’un giovane agitato, che teneva il capo esageratamente basso davanti a lui e lo guardava di tanto in tanto con soggezione e paura, cercando di capire se quello che diceva facesse piacere al Commissario o ne potesse scatenare l’imprevedibile collera. La stanza era scarsamente illuminata e la poca luce filtrava da due finestre alte e strette, poco più che feritoie, come gli occhi indagatori di Guglielmo puntati sul ragazzo.
«Dunque, a tuo dire, Vitellozzo non ha mire sul Borgo San Sepolcro»
«Non ho detto questo, signore. Quello che ho udito, e che subito son corso qui a riferirvi, è che vi sono trame per liberare Arezzo dai Fiorentini»
«Per ordire una ribellione, vorrai dire!»
«Come volete voi, signore. Io non mi so spiegare bene, ma questa è la verità. Non sarà una semplice scorreria. Vitellozzo marcerà su Arezzo, e gli Aretini gli apriranno le porte»
«E tu, ragazzo… come hai detto che ti chiami?»
«Aurelio, signore. Aurelio di Tommaso».
Lo schianto d’un fulmine lanciò dalle feritoie un lampo di luce abbagliante nella stanza. Il ragazzo trasalì.
«E tu, Aurelio di Tommaso, come hai appreso la notizia?»
«Io sono, vedete, molto in confidenza col figliolo di Bernardino Camaiani, che è stato…»
Lo scroscio del temporale si mischiò al brontolio di tuoni insistiti e non troppo lontani.
«Lo so, è stato prigioniero di Vitellozzo»
«Solo per finta, signore. In verità, vedete, lo tratteneva per aver modo di parlare con gli Aretini che andavano a chieder la sua liberazione, e tirarli in lega»
«Ingegnoso, se fosse vero»
«E’ la pura verità, ve lo giuro. Se non mi credete, fatevelo dire da messer Marcantonio»
«Marcantonio chi?»
«Marcantonio Romani, di Biagio. È mercante anche lui, e amico del Camaiani, e di me parente»
«E per quale motivo, se tu sei in amicizia e parentela con costoro, avresti deciso di tradirli?»
«Io non ho niente contro di loro, ma voglio tornare a casa mia senza dovermi nascondere, e ora non posso farlo. Vitellozzo mi ha bandito da Città di Castello, e se ci rimetto piede mi fa impiccare senza pensarci due volte. Quello è un demonio!»
«Cos’hai combinato? Non si dà il bando a un ragazzo senza motivo!»
Spirali di vento fradicio di pioggia s’infiltrarono nella stanza e avvolsero Aurelio, che rabbrividì.
«Niente, ve lo giuro!»
«Basta! Smetti di giurare, verme! Controllerò le tue informazioni e prega che risultino vere, perché altrimenti sarò io ad impiccarti, e lo farò personalmente. Adesso vai! Quando hai detto che torneranno in Arezzo, il figlio del Camaiani e codesto tuo messer Marcantonio?»
«A quest’ora saranno già a casa, signore. Infatti, mentre io partivo da Città di Castello per venire qui, loro cavalcavano verso Arezzo»
«Bene, ragazzo. Va’ giù nelle cucine e fatti dare un pezzo di pane, ché mi sembri tutto pelle e ossa. Ma non aspettarti altra ricompensa. Non mi piacciono i traditori e le spie, nemmeno se lo fanno per me».
Il ragazzo fece per andarsene, ma Guglielmo ci ripensò: «Dimmi ancora una cosa. Non hai per caso sentito dai tuoi diciamo amici il nome di qualche altro congiurato?»
«No, io…»
«Bada, Aurelio! La corda per il tuo collo è bell’e pronta!»
«Solo uno, signore, solo uno»
«E dimmelo, dunque!»
«Un nome strano. Un soprannome, credo»
Il Commissario mosse un passo verso il ragazzo.
Pose mano alla spada: «Vuoi dirmelo, o no?»
Aurelio alzò le braccia a proteggersi il volto e mormorò con un fil di voce: «Nerone, credo»
«Come!?»
«Nerone, signore»
«Nerone… Nerone da Pantaneto, sicuramente! Quel villano ignorante! Bene, ora puoi andare. Anzi no!» Il cuore balzò in gola al ragazzo. «Ho cambiato idea. Verrai con me ad Arezzo, e vedremo se hai detto la verità».
Un’ora dopo il Commissario cavalcava sulla strada di Arezzo. Pioveva ancora, o per meglio dire diluviava. Una tempesta di vento e acqua che durava da ore e non accennava a calmarsi, impedendo a tratti anche di distinguer la via. In mezzo al drappello di soldati c’era anche Aurelio, una mano legata alla sella mentre l’altra reggeva il tozzo di pane promesso da Guglielmo. Aveva fame ma non mangiava, e il pane s’era ormai zuppato.

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