Era emozionato, il Camaiani, mentre cavalcava a
fianco del figlio sulla via di casa. Gli pareva che gli alberi ai lati della
strada lo salutassero, che i contadini sospendessero il lavoro per
congratularsi con lui, che le donne si affacciassero alle finestre per
lanciargli un sorriso. Il sole luminoso della fine di maggio riscaldava il suo
cuore leggero. Si compiaceva della sua armatura nuova, e nonostante la mole
gl’impedisse di stare in sella con la necessaria disinvoltura, più d’una volta
mise il cavallo al galoppo, per arrivar prima. Cavallo e armatura erano stati
il grazioso regalo con cui Vitellozzo aveva accompagnato la sua liberazione.
Ormai non gli serviva più.
Giunsero a riveder le mura d’Arezzo a metà
pomeriggio, e alla Porta di Colcitrone trovarono ad attenderli Pierantonio Lambardi
e una piccola folla di parenti e amici.
Scese di sella per godersi saluti battimani e pacche
sulle spalle. Una festa che non si era attesa e che lo commosse. Si sentiva
l’eroe del giorno.
Esaurito il giro degli abbracci, cercò infine con
gli occhi la giovane moglie e la scorse in disparte, accompagnata dalla famiglia.
S’avvicinò per salutare il suocero, Bernardino Tondinelli, che lo guardava
scuro in volto. Il Lambardi e gli altri parenti si scostarono con ostentazione.
Gente nuova, i Tondinelli, arrivati da Todi due anni
prima per sfuggire alle scorrerie di Vitellozzo. Nella città umbra era una
delle famiglie più in vista, ricchi in virtù di fortunati commerci e rispettati
per la protezione accordata loro da Ranuccio da Marciano, di cui Bernardino era
divenuto cancelliere.
Le protezioni sono indispensabili per mantenere un
certo rango sociale, ma possono risultare pericolose, perché se il protettore
cade ti trascina quasi sempre con sé. E Ranuccio, come si sa, ebbe parte nella
morte di Paolo Vitelli, scatenando la furia di Vitellozzo, che prese di mira
tutti i suoi parenti e sostenitori.
Tra costoro c’era anche il Tondinelli che, costretto
a fuggire, condusse la famiglia in Arezzo, dove pensava di riprendere i propri
traffici e continuare a prosperare contando sull’amicizia degli Albergotti e
sulla protezione dei nemici di Vitellozzo, vale a dire della Repubblica
fiorentina.
Ma s’illudeva.
In una piccola città ogni nuovo arrivo è visto con
diffidenza. Se poi gli intrusi son gente ricca suscitano pure invidia. Se
infine si schierano apertamente con gli oppressori, s’attirano addosso l’odio
sordo di chi combatte ogni giorno con la fame.
Nel giro di poche settimane si trovarono in una
situazione parecchio difficile: se il potere era saldamente nelle mani dei Fiorentini,
pure era in mezzo agli Aretini che bisognava vivere, giorno per giorno, e con
loro fare i conti.
Il Tondinelli pensò d’aver trovato la soluzione
spingendo le sue figlie femmine – Iddio lo aveva benedetto dandogli anche
quattro bei maschi – tra le braccia di due influenti cittadini.
Una andò proprio a Bernardino Camaiani che allora,
come sappiamo, era al servizio della famiglia di Ranuccio a Modigliana. L’altra
se la prese il figlio maggiore di Pierantonio Lambardi.
Ma le cose non si sistemarono.
In verità col Camaiani non ci furono problemi:
vedovo e di molto più anziano della promessa sposa, di famiglia guelfa e con un
buon fiuto degli affari, accettò subito la proposta di matrimonio e la ricca
dote della fanciulla.
Il Lambardi, invece, oppose un netto e sgarbato
rifiuto. Neanche a parlarne di mettersi in parentela coi nuovi venuti, amici
dei Fiorentini e perciò nemici di Arezzo. Arrivò fino al punto di buttar fuori
di casa il figlio quando questi, attratto dall’avvenenza della ragazza e dal
denaro sonante del suocero, decise ugualmente di sposarsi. Lite in famiglia, e
gli altri fratelli a fare invano da pacieri.
Il Tondinelli organizzò comunque le nozze, sperando
che il tempo e la grazia di sua figlia avrebbero piegato la testardaggine
dell’aretino, ma non fu così. La giovane riuscì presto a farsi benvolere dai
cognati ma il suocero, che aveva vietato a tutti i componenti della famiglia di
partecipare alla cerimonia nuziale, rifiutò di farla entrare una sola volta in
casa sua.
I piani del Tondinelli andavano a monte, e si
convinse che non avrebbe avuto pace finché viveva il Lambardi, il quale da
parte sua, riteneva quelle nozze un’offesa inaccettabile al proprio onore ed
aspettava l’occasione per lavarla nel sangue.
Arrivarono prima i figli maschi del Tondinelli. Per
una delle frequenti ‘convocazioni’ che la Dominante imponeva ai cittadini più
in vista, il Lambardi era stato chiamato a Firenze. Mentre se ne tornava verso
Arezzo imprecando contro i maledetti padroni, in una fredda mattina di gennaio,
l’attesero in un bosco nei pressi dell’Ancisa e l’assalirono con spade e
coltelli, lasciandolo per terra in un lago di sangue, convinti d’aver eliminato
il loro problema.
La tempra di Pierantonio era però assai dura e
sopravvisse alle ferite. Qualche mese dopo non gli restavano che due profonde
cicatrici sul volto, perenne ricordo della brutta avventura.
Gli aggressori s’erano travestiti da briganti ma
durante lo scontro era riuscito a strappar via il cappuccio ad uno di loro e a
guardar bene in faccia chi lo voleva morto.
Suo figlio, inorridito per l’accaduto, gli chiese
perdono e voleva ripudiare la moglie, ma fu richiamato dal Visdomini, che li
aveva maritati, al rispetto del vincolo matrimoniale. Ormai però tra le due
famiglie era guerra aperta.
Poi, nell’estate, Vitellozzo attaccò Modigliana e si
pensò che il Camaiani fosse morto nell’assalto, rendendo vano anche l’altro
matrimonio. Per tutto l’inverno il Tondinelli meditò di lasciare Arezzo e
trasferirsi a Firenze, ma alla fine ne fu dissuaso: anche lì le Arti e le
Corporazioni mal sopportavano la venuta di nuovi concorrenti.
Le sue speranze si rianimarono quando, all’inizio
della primavera, cominciò a girar la voce che suo genero fosse vivo e
prigioniero a Città di Castello, e che si stesse trattando per la sua
liberazione. Non era certo nelle condizioni d’intercedere per lui presso
Vitellozzo, ma si offrì di pagare almeno una parte del riscatto che, pensava,
sarebbe stato chiesto.
Quando seppe che tornava a casa, si presentò ad
accoglierlo con tutta la famiglia, pur sapendo che inevitabilmente avrebbe
incontrato anche il Lambardi e i suoi figlioli. Quando però lo vide entrare
trionfante per la Porta di Colcitrone in sella al nuovo destriero, con la bella
armatura indosso e al suo fianco il figlio avuto dal precedente matrimonio, il
mondo gli crollò addosso: evidentemente suo genero era passato col nemico.
Ormai i Tondinelli avevan perduto ogni appoggio in città, se si eccettua
l’amicizia ancora viva con gli Albergotti.
Lo sguardo raggiante del Camaiani mentre abbracciava
la sposa e gli tendeva la mano non dissolse il suo malumore. Rispose gelido al
saluto fissando i Lambardi poco distanti.
Il genero avrebbe voluto chiedergli se si sentiva
bene, ma tra la gente si fece largo un manipolo armato che scortava il messo di
messer Guglielmo de’ Pazzi, Commissario in Arezzo del governo fiorentino.
«Il Commissario vi porge il bentornato, messer
Camaiani, e si congratula per la vostra liberazione. A suo nome vi comunico che
i Priori reclamano la vostra presenza in Firenze, per domani».
Silenzio, gelo, rabbia accolsero l’irruzione del
messo. Al Camaiani ci volle un po’ per reprimere la voglia di reagire con
violenza. Strinse i pugni, deglutì, alzò la testa, si chiese come poteva aver
sopportato, prima, quei lupi famelici e si disse che, cristo!, sarebbe stato
ancora per poco. Alla fine rassicurò il messo che sì, avrebbe obbedito,
presentandosi ai Priori come richiesto.
D’altra parte, non era il caso di destar sospetti
proprio ora, tanto più che gli armigeri guardavano strano la sua armatura e il
cavallo su cui era arrivato.
«Sta bene» approvò il messo, e se ne tornò da dove
era venuto, accompagnato da mugugni e proteste, che crescevano di tono man mano
che il drappello s’allontanava.
Poi l’odio dei Lambardi tornò a puntarsi sui
Tondinelli. Lo Sfregiato fremeva, ma per il momento bisognava ingoiare in silenzio
e si limitò, con gesto eloquente, a portare la mano alle cicatrici. Ma già i
suoi parenti-nemici si stavano allontanando.
La sera dopo cena, in casa Camaiani si tenne
consiglio. Il tempo passato a Città di Castello non era stato infruttuoso e il
patrocinio di Vitellozzo aveva permesso allo stesso Bernardino d’intessere
legami d’affari che aprivano interessanti prospettive per tutta la famiglia.
La convocazione a Firenze non ci voleva. Com’era
uso, non sarebbe stata cosa d’un giorno. Di sicuro i Fiorentini si aspettavano
un accurato resoconto della sua prigionia ma, sempre sospettosi, lo avrebbero
anche trattenuto: forse una settimana, forse più. Per loro, era un modo
mascherato per tenere ostaggi quando non vedevano chiaro negli avvenimenti
aretini e quando le spie non riuscivano a dare informazioni soddisfacenti.
Questo rischiava di mandare a monte gli affari
appena avviati. Serviva qualcuno che seguitasse a tessere quei fili durante la
forzata assenza di Bernardino. Farsi aiutare dal suocero, vista la mutata
situazione, neanche a parlarne. Quella sera, dunque, aveva invitato un amico,
tal Marcantonio di Biagio Romani, mercante anch’egli, che in Città di Castello
aveva parenti e affari, e costui, intravedendo guadagni, accettò di buon grado
il compito che gli veniva richiesto.
Fu giocoforza metterlo al corrente del trattato e
dei piani d’insurrezione, ma d’altra parte, al punto in cui s’era giunti e se
si voleva dar corso alla cosa, diventava indispensabile allargare il numero dei
congiurati. E Marcantonio era senza dubbio uomo di fiducia e un vero aretino.
Si decise che il figlio di Bernardino lo
accompagnasse e così la mattina dopo, mentre il Camaiani varcava scortato la
Porta del Foro verso Firenze, suo figlio e il Romani lasciavano la città per la
Porta di Colcitrone: il giovane percorreva a ritroso, con animo meno lieto, la
strada su cui il giorno prima aveva cavalcato allegramente al fianco di suo
padre.
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