giovedì 2 aprile 2020

CAPITOLO 20 - IL RITORNO D'UNO STRANO PRIGIONIERO


Era emozionato, il Camaiani, mentre cavalcava a fianco del figlio sulla via di casa. Gli pareva che gli alberi ai lati della strada lo salutassero, che i contadini sospendessero il lavoro per congratularsi con lui, che le donne si affacciassero alle finestre per lanciargli un sorriso. Il sole luminoso della fine di maggio riscaldava il suo cuore leggero. Si compiaceva della sua armatura nuova, e nonostante la mole gl’impedisse di stare in sella con la necessaria disinvoltura, più d’una volta mise il cavallo al galoppo, per arrivar prima. Cavallo e armatura erano stati il grazioso regalo con cui Vitellozzo aveva accompagnato la sua liberazione. Ormai non gli serviva più.

Giunsero a riveder le mura d’Arezzo a metà pomeriggio, e alla Porta di Colcitrone trovarono ad attenderli Pierantonio Lambardi e una piccola folla di parenti e amici.
Scese di sella per godersi saluti battimani e pacche sulle spalle. Una festa che non si era attesa e che lo commosse. Si sentiva l’eroe del giorno.
Esaurito il giro degli abbracci, cercò infine con gli occhi la giovane moglie e la scorse in disparte, accompagnata dalla famiglia. S’avvicinò per salutare il suocero, Bernardino Tondinelli, che lo guardava scuro in volto. Il Lambardi e gli altri parenti si scostarono con ostentazione.
Gente nuova, i Tondinelli, arrivati da Todi due anni prima per sfuggire alle scorrerie di Vitellozzo. Nella città umbra era una delle famiglie più in vista, ricchi in virtù di fortunati commerci e rispettati per la protezione accordata loro da Ranuccio da Marciano, di cui Bernardino era divenuto cancelliere.
Le protezioni sono indispensabili per mantenere un certo rango sociale, ma possono risultare pericolose, perché se il protettore cade ti trascina quasi sempre con sé. E Ranuccio, come si sa, ebbe parte nella morte di Paolo Vitelli, scatenando la furia di Vitellozzo, che prese di mira tutti i suoi parenti e sostenitori.
Tra costoro c’era anche il Tondinelli che, costretto a fuggire, condusse la famiglia in Arezzo, dove pensava di riprendere i propri traffici e continuare a prosperare contando sull’amicizia degli Albergotti e sulla protezione dei nemici di Vitellozzo, vale a dire della Repubblica fiorentina.
Ma s’illudeva.
In una piccola città ogni nuovo arrivo è visto con diffidenza. Se poi gli intrusi son gente ricca suscitano pure invidia. Se infine si schierano apertamente con gli oppressori, s’attirano addosso l’odio sordo di chi combatte ogni giorno con la fame.
Nel giro di poche settimane si trovarono in una situazione parecchio difficile: se il potere era saldamente nelle mani dei Fiorentini, pure era in mezzo agli Aretini che bisognava vivere, giorno per giorno, e con loro fare i conti.
Il Tondinelli pensò d’aver trovato la soluzione spingendo le sue figlie femmine – Iddio lo aveva benedetto dandogli anche quattro bei maschi – tra le braccia di due influenti cittadini.
Una andò proprio a Bernardino Camaiani che allora, come sappiamo, era al servizio della famiglia di Ranuccio a Modigliana. L’altra se la prese il figlio maggiore di Pierantonio Lambardi.
Ma le cose non si sistemarono.
In verità col Camaiani non ci furono problemi: vedovo e di molto più anziano della promessa sposa, di famiglia guelfa e con un buon fiuto degli affari, accettò subito la proposta di matrimonio e la ricca dote della fanciulla.
Il Lambardi, invece, oppose un netto e sgarbato rifiuto. Neanche a parlarne di mettersi in parentela coi nuovi venuti, amici dei Fiorentini e perciò nemici di Arezzo. Arrivò fino al punto di buttar fuori di casa il figlio quando questi, attratto dall’avvenenza della ragazza e dal denaro sonante del suocero, decise ugualmente di sposarsi. Lite in famiglia, e gli altri fratelli a fare invano da pacieri.
Il Tondinelli organizzò comunque le nozze, sperando che il tempo e la grazia di sua figlia avrebbero piegato la testardaggine dell’aretino, ma non fu così. La giovane riuscì presto a farsi benvolere dai cognati ma il suocero, che aveva vietato a tutti i componenti della famiglia di partecipare alla cerimonia nuziale, rifiutò di farla entrare una sola volta in casa sua.
I piani del Tondinelli andavano a monte, e si convinse che non avrebbe avuto pace finché viveva il Lambardi, il quale da parte sua, riteneva quelle nozze un’offesa inaccettabile al proprio onore ed aspettava l’occasione per lavarla nel sangue.
Arrivarono prima i figli maschi del Tondinelli. Per una delle frequenti ‘convocazioni’ che la Dominante imponeva ai cittadini più in vista, il Lambardi era stato chiamato a Firenze. Mentre se ne tornava verso Arezzo imprecando contro i maledetti padroni, in una fredda mattina di gennaio, l’attesero in un bosco nei pressi dell’Ancisa e l’assalirono con spade e coltelli, lasciandolo per terra in un lago di sangue, convinti d’aver eliminato il loro problema.
La tempra di Pierantonio era però assai dura e sopravvisse alle ferite. Qualche mese dopo non gli restavano che due profonde cicatrici sul volto, perenne ricordo della brutta avventura.
Gli aggressori s’erano travestiti da briganti ma durante lo scontro era riuscito a strappar via il cappuccio ad uno di loro e a guardar bene in faccia chi lo voleva morto.
Suo figlio, inorridito per l’accaduto, gli chiese perdono e voleva ripudiare la moglie, ma fu richiamato dal Visdomini, che li aveva maritati, al rispetto del vincolo matrimoniale. Ormai però tra le due famiglie era guerra aperta.
Poi, nell’estate, Vitellozzo attaccò Modigliana e si pensò che il Camaiani fosse morto nell’assalto, rendendo vano anche l’altro matrimonio. Per tutto l’inverno il Tondinelli meditò di lasciare Arezzo e trasferirsi a Firenze, ma alla fine ne fu dissuaso: anche lì le Arti e le Corporazioni mal sopportavano la venuta di nuovi concorrenti.
Le sue speranze si rianimarono quando, all’inizio della primavera, cominciò a girar la voce che suo genero fosse vivo e prigioniero a Città di Castello, e che si stesse trattando per la sua liberazione. Non era certo nelle condizioni d’intercedere per lui presso Vitellozzo, ma si offrì di pagare almeno una parte del riscatto che, pensava, sarebbe stato chiesto.
Quando seppe che tornava a casa, si presentò ad accoglierlo con tutta la famiglia, pur sapendo che inevitabilmente avrebbe incontrato anche il Lambardi e i suoi figlioli. Quando però lo vide entrare trionfante per la Porta di Colcitrone in sella al nuovo destriero, con la bella armatura indosso e al suo fianco il figlio avuto dal precedente matrimonio, il mondo gli crollò addosso: evidentemente suo genero era passato col nemico. Ormai i Tondinelli avevan perduto ogni appoggio in città, se si eccettua l’amicizia ancora viva con gli Albergotti.
Lo sguardo raggiante del Camaiani mentre abbracciava la sposa e gli tendeva la mano non dissolse il suo malumore. Rispose gelido al saluto fissando i Lambardi poco distanti.
Il genero avrebbe voluto chiedergli se si sentiva bene, ma tra la gente si fece largo un manipolo armato che scortava il messo di messer Guglielmo de’ Pazzi, Commissario in Arezzo del governo fiorentino.
«Il Commissario vi porge il bentornato, messer Camaiani, e si congratula per la vostra liberazione. A suo nome vi comunico che i Priori reclamano la vostra presenza in Firenze, per domani».
Silenzio, gelo, rabbia accolsero l’irruzione del messo. Al Camaiani ci volle un po’ per reprimere la voglia di reagire con violenza. Strinse i pugni, deglutì, alzò la testa, si chiese come poteva aver sopportato, prima, quei lupi famelici e si disse che, cristo!, sarebbe stato ancora per poco. Alla fine rassicurò il messo che sì, avrebbe obbedito, presentandosi ai Priori come richiesto.
D’altra parte, non era il caso di destar sospetti proprio ora, tanto più che gli armigeri guardavano strano la sua armatura e il cavallo su cui era arrivato.
«Sta bene» approvò il messo, e se ne tornò da dove era venuto, accompagnato da mugugni e proteste, che crescevano di tono man mano che il drappello s’allontanava.
Poi l’odio dei Lambardi tornò a puntarsi sui Tondinelli. Lo Sfregiato fremeva, ma per il momento bisognava ingoiare in silenzio e si limitò, con gesto eloquente, a portare la mano alle cicatrici. Ma già i suoi parenti-nemici si stavano allontanando.
La sera dopo cena, in casa Camaiani si tenne consiglio. Il tempo passato a Città di Castello non era stato infruttuoso e il patrocinio di Vitellozzo aveva permesso allo stesso Bernardino d’intessere legami d’affari che aprivano interessanti prospettive per tutta la famiglia.
La convocazione a Firenze non ci voleva. Com’era uso, non sarebbe stata cosa d’un giorno. Di sicuro i Fiorentini si aspettavano un accurato resoconto della sua prigionia ma, sempre sospettosi, lo avrebbero anche trattenuto: forse una settimana, forse più. Per loro, era un modo mascherato per tenere ostaggi quando non vedevano chiaro negli avvenimenti aretini e quando le spie non riuscivano a dare informazioni soddisfacenti.
Questo rischiava di mandare a monte gli affari appena avviati. Serviva qualcuno che seguitasse a tessere quei fili durante la forzata assenza di Bernardino. Farsi aiutare dal suocero, vista la mutata situazione, neanche a parlarne. Quella sera, dunque, aveva invitato un amico, tal Marcantonio di Biagio Romani, mercante anch’egli, che in Città di Castello aveva parenti e affari, e costui, intravedendo guadagni, accettò di buon grado il compito che gli veniva richiesto.
Fu giocoforza metterlo al corrente del trattato e dei piani d’insurrezione, ma d’altra parte, al punto in cui s’era giunti e se si voleva dar corso alla cosa, diventava indispensabile allargare il numero dei congiurati. E Marcantonio era senza dubbio uomo di fiducia e un vero aretino.
Si decise che il figlio di Bernardino lo accompagnasse e così la mattina dopo, mentre il Camaiani varcava scortato la Porta del Foro verso Firenze, suo figlio e il Romani lasciavano la città per la Porta di Colcitrone: il giovane percorreva a ritroso, con animo meno lieto, la strada su cui il giorno prima aveva cavalcato allegramente al fianco di suo padre.

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