venerdì 10 aprile 2020

VENERDI' SANTO

Affaticato dalla dura salita, Francesco, ormai anziano, sedette a riprender fiato sulla panca di pietra, al povento. Era un giorno speciale, quello: il venerdì santo. Giorno delle stimmate del sangue del dolore e del sacrificio, della negazione dell'uomo e della vita. Giorno della morte della speranza.

Ma il sole di quella mattina invitava a pensare alla Pasqua, alla salvezza, alla vita che riprende dopo l'inverno. Quel sole stimolava la fiducia che dopo la lunga strada e il duro salire la porta non sarebbe rimasta chiusa.
Il venerdì santo era sempre stato un giorno speciale, per Francesco, fin da quel lontano aprile del 1327, trentasei anni prima, quando aveva incontrato l'amore, lui giovane baldanzoso, negli occhi intensi della bella Laura.
Non era mai stato un dormiglione, neppure in gioventù. Tirava tardi la notte, anima di mille feste con le sue canzoni in un volgare pulito melodioso facile, conteso dalle fanciulle per le sue rime gentili e l'aspetto non brutto. Sapeva declamare improvvisare divertire, principe delle notti avignonesi, che lo lasciavano alla fine sempre vuoto e inappagato.
Le finiva allora, quelle notti, cercando nei libri quel che le feste non gli avevano dato: Cicerone e Virgilio i compagni delle sue ore piccole.
In quaresima, poi, non c'erano feste e così leggeva e scriveva per nottate intere, accendendo lo stoppino di una nuova candela col mozzicone fumante di quella che si era lentamente consumata. Si assopiva verso l'alba, presto svegliato dai primi rintocchi di campana delle tante chiese della città dei papi, novella babilonia, come la chiamava lui.
Quella mattina, però, le campane erano rimaste mute: non ci sono rintocchi il venerdì santo, c'è solo il silenzio di fronte alla morte, e in quel silenzio il suo torpore era divenuto sonno profondo, e dormendo sognò.
Nel sogno si trovò ai piedi del Golgota, circondato da una folla mesta che tornava a capo chino verso la grande città. Folate di vento sollevavano nuvole di polvere.
Un gruppo di donne velate seguiva un giovane ed uno straniero che portavano il corpo del Cristo avvolto in un lenzuolo. Voltate le spalle alla folla, Francesco seguì il funerale sino al sepolcro. questo non era un loculo scavato nel tufo come gli altri intorno, ma un'arca. Un'arca di pietra sorretta da quattro colonne basse poggiate su un piedistallo, chiusa da un pesante coperchio a doppio spiovente, ornato agli angoli da quattro torrette piramidali: il tipo di monumento funebre allora in uso per le persone importanti.
Lo straniero prese tutto su di sé l'involucro inerte e dal lenzuolo scivolò fuori un braccio esangue, mostrando un'orrenda ferita al polso trapassato dal chiodo. Le dita della mano erano disposte nell'atto della benedizione.
Il giovane sollevò senza sforzo il coperchio dell'arca e lo rimise al suo posto dopo che vi ebbero deposto il morto. Quindi il gruppetto s'allontanò in silenzio. Le donne piangevano.
Rimasto solo, si avvicinò all'arca per leggere l'iscrizione che vi era incisa, e rimase impietrito:
FRIGIDA FRANCISCI LAPIS HIC TEGIT OSSA PETRARCE
Questa pietra custodisce le fredde ossa di Francesco Petrarca
Un raggio di sole filtrato dalle imposte lo riportò alla realtà. Era mattino inoltrato e Francesco sentì il bisogno di prendere una boccata d'aria per scrollarsi di dosso il peso di quel sogno.
Uscì per le vie animate, verso il verde dei prati lungo il Rodano, ma passando davanti alla chiesa di Santa Chiara fu attratto dalle tombe del piccolo cimitero: alcune erano a forma di arca.
Un brivido gli percorse la schiena, entrò in chiesa e s'inginocchiò. Pregava che passasse da lui quel venerdì santo. Pregava e si accorse che non stava fissando il crocifisso sull'altare, ma si era perso, due panche più in là, nell'onda d'una chioma di capelli biondi che un velo leggero non riusciva a contenere.
L'incubo di morte svanì e apparve il sogno di vita. L'ovale perfetto della testa, la posa compunta delle mani, le dita intrecciate nella preghiera, le pieghe del mantello si presero in breve tutti i suoi pensieri: chissà com'è bella. Laura volse lo sguardo...
Seduto al povento sulla panca di pietra, Francesco si sorprese ancora in un sorriso a quel dolce ricordo, lontano ma vivo reale presente.
Non era stato corrisposto. L'aveva trattenuta la sua virtù di donna sposata, il suo orgoglio di tenera madre, la sua lealtà alla vita già scelta. Era stato respinto, ma non per questo l'amore era morto. Anzi, per quel no era divenuto prepotente assoluto ideale eterno, fonte di ispirazione poetica oltre ogni ragione, oltre ogni evento, oltre la peste.
Quella sordida tremenda grande peste del '48 che si era portata via, tra le migliaia di derelitti, anche la sua Laura.

Nessun commento:

Posta un commento