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Dopo
laudi, Guglielmino s’era trattenuto nella cappella di San Gregorio, consumando
in preghiera le ore della mattina. Era quasi sesta quando una mano posata sulla
sua spalla lo fece trasalire. L’Arcidiacono di Cattedrale, un giovane prete magro
e dal colorito slavato, gli si rivolse rispettoso: «Perdonate, monsignor
Vescovo, ma il Podestà è qui e chiede di parlarvi»
«Non
vedete che sto pregando?»
«Lo
vedo, monsignore, ma è già mezzora che aspetta: dice che non se ne andrà senza
avervi visto».
Pentito
di aver permesso che accedesse alla più alta carica comunale uno che s’era
mostrato più volte inaffidabile e che lo aveva ripagato schierandosi al fianco
dei suoi nemici interni, Guglielmino si alzò senza nascondere la sua
irritazione. Dopo un frettoloso segno di croce e un abbozzo d’inchino
all’altare, così malfatti da scandalizzare l’Arcidiacono, si accinse a seguirlo
zoppicando verso la sacrestia.
Guido
Novello si stava martoriando le mani per l’agitazione.
Come
vide entrare il Vescovo, le nascose dietro la schiena e gli comunicò: «Si son
mossi».
Non
servivano altre spiegazioni per capire che parlava dell’oste fiorentina e del
loro maledetto campo, che da un mese tenevano alla Badia di Ripoli:
evidentemente avevano ormai arruolato masnade sufficienti alla bisogna.
«Per
il Valdarno?»
«Per
la Consuma»
«Il
Casentino!?»
«E
sono in tanti. Vogliono i nostri castelli, accidenti a loro»
«Certo
che li vogliono!» sbottò Guglielmino fissando astioso il suo interlocutore.
«Avrebbero pagato, per averli!»
«Adesso
dobbiamo difenderli»
«Già!»
Un lampo d’odio accese lo sguardo del Vescovo e un pugno violento s’abbatté sul
cassettone che ospitava i piviali e gli altri paramenti sacri, provocando un
sussulto all’Arcidiacono.
«Bisognerebbe…»
azzardò il conte Guido, interrotto con foga dal presule: «Convocate al Comune
il capitano Buonconte e mio nipote Guglielmo. Disponete i banchi per
l’arruolamento e fate portare le insegne sulla lizza, fuori del castello di San
Clemente. E fatelo subito!»
Si
voltò al giovane prete, con più pacatezza: anch’egli, prima della nomina a
Vescovo, non ancora trentenne, aveva ricoperto la sua stessa carica e chissà
che da lì a qualche giorno non sarebbe toccato proprio a lui sostituirlo a capo
della Chiesa aretina.
«Sapete,
il vostro Vescovo condurrà l’oste ghibellina all’assalto di quella guelfa, e
difenderà le nostre terre con la spada, nel nome di Dio e di San Donato». Nella
voce una vena di mestizia. Il prete chinò il capo, mentre Guglielmino infilava
la porta diretto alle sue stanze.
Guido
Novello lo guardò andar via con un’espressione strana, da non capire cosa gli
spesse passando per la testa, ma l’Arcidiacono neanche se ne accorse.
Nel
medesimo istante la Berta, magnifica nella veste azzurra, fece il suo ingresso
nella casa del notaio Bernardo, in contrada dell’Orto.
«Oggi
dobbiamo adempiere un rito un po’ insolito» le spiegò messer Bernardo
incontrandola nel vestibolo ed ammirandone le forme esaltate dall’abito:
«dobbiamo concentrare in un sol giorno gli atti preparatori e quelli conclusivi
delle nozze. Ma questo lo sapete già e perciò vi prego di pazientare qui finché
non vi farò chiamare».
La
Berta annuì, girando gli occhi a due sedioli di legno intarsiati e alla
raffinatezza dell’arazzo appeso ad una delle pareti.
Nello
studio, data lettura delle clausole del matrimonio che Mauro aveva già
sottoscritto giorni prima, mastro Bencio si accinse a siglarle a sua volta.
Portata
quindi una preziosa Bibbia miniata, Mauro vi posò la mano destra e pronunciò,
di fronte ai cavalieri chiamati a testimoni, il giuramento del parentado, col
quale si impegnava formalmente a condurre in porto le nozze. Si sarebbe
anch’esso dovuto svolgere al momento della promessa, il giorno dell’Annunziata,
ma tant’è. Istintivamente portò la mano al sacchetto dell’anello appeso alla
cintura, e sorrise.
Venne
introdotta la sposa e i loro occhi non si lasciarono più mentre rispondevano
alle domande del notaio. Le mani sudavano e nel pronunciare le risposte la loro
voce ebbe vibrazioni d’emozione.
Alla
fine, invitato da ser Bernardo, Mauro estrasse l’anello, non senza qualche
difficoltà nello sciogliere la cordicella che stringeva il sacchetto. Mastro
Bencio, da parte sua, si fece avanti, prese la mano destra di sua figlia e la
sostenne con dolcezza. I due sposi continuavano a fissarsi e fu il notaio a
dover indirizzare le mani perché l’anello andasse al suo posto.
Fuori,
le campane cominciarono a suonare insistenti.
«Lunga
vita agli sposi!» esclamò Ghigo.
«Suonano
per voi?» chiese incredulo il notaio mentre lo scampanio copriva la sua voce.
Aveva cominciato quella grossa della Pieve, seguita quasi subito dalla campana grande
di San Pietro Maggiore. Fra le due si frammisero i rintocchi un po’ fessi di
San Pier Piccolo e via via tutte le altre, in un richiamo prodotto solo dai
bronzi grossi. Come suonassero a morto, ma con un ritmo più serrato; come a
martello, ma meno precipitose.
Bencio
fu il primo a capire: «E’ una convocazione generale, c’è qualcosa di grosso, in
ballo».
Pietro
lo guardò costernato: «Tra un’ora il Vescovo deve benedire questa unione: l’ha
promesso!»
Il
vasaro allargò le braccia: «I primi rintocchi son venuti dalla Pieve e quindi
immagino che l’assemblea sarà alla
piazza del Comune, purtroppo».
Mentre
infatti le grandi decisioni sulla vita interna alla città si discutevano sul
colle delle Cattedrali, la convocazione alla Platea Communis poteva significare solo una nuova guerra.
La
festa s’interruppe. Salirono alla Cattedrale, e la Berta si teneva stretta al
suo Mauro.
Al
pozzo di Tofano si dovettero fermare, per udire da un araldo la conferma delle
previsioni di Bencio: la città era convocata in assemblea, per l’ora nona, alla
piazza del Comune.
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