sabato 16 maggio 2020

EPISODIO 33 - UNA FESTA INTERROTTA




Dopo laudi, Guglielmino s’era trattenuto nella cappella di San Gregorio, consumando in preghiera le ore della mattina. Era quasi sesta quando una mano posata sulla sua spalla lo fece trasalire. L’Arcidiacono di Cattedrale, un giovane prete magro e dal colorito slavato, gli si rivolse rispettoso: «Perdonate, monsignor Vescovo, ma il Podestà è qui e chiede di parlarvi»
«Non vedete che sto pregando?»
«Lo vedo, monsignore, ma è già mezzora che aspetta: dice che non se ne andrà senza avervi visto».
Pentito di aver permesso che accedesse alla più alta carica comunale uno che s’era mostrato più volte inaffidabile e che lo aveva ripagato schierandosi al fianco dei suoi nemici interni, Guglielmino si alzò senza nascondere la sua irritazione. Dopo un frettoloso segno di croce e un abbozzo d’inchino all’altare, così malfatti da scandalizzare l’Arcidiacono, si accinse a seguirlo zoppicando verso la sacrestia.
Guido Novello si stava martoriando le mani per l’agitazione.
Come vide entrare il Vescovo, le nascose dietro la schiena e gli comunicò: «Si son mossi».
Non servivano altre spiegazioni per capire che parlava dell’oste fiorentina e del loro maledetto campo, che da un mese tenevano alla Badia di Ripoli: evidentemente avevano ormai arruolato masnade sufficienti alla bisogna.
«Per il Valdarno?»
«Per la Consuma»
«Il Casentino!?»
«E sono in tanti. Vogliono i nostri castelli, accidenti a loro»
«Certo che li vogliono!» sbottò Guglielmino fissando astioso il suo interlocutore. «Avrebbero pagato, per averli!»
«Adesso dobbiamo difenderli»
«Già!» Un lampo d’odio accese lo sguardo del Vescovo e un pugno violento s’abbatté sul cassettone che ospitava i piviali e gli altri paramenti sacri, provocando un sussulto all’Arcidiacono.
«Bisognerebbe…» azzardò il conte Guido, interrotto con foga dal presule: «Convocate al Comune il capitano Buonconte e mio nipote Guglielmo. Disponete i banchi per l’arruolamento e fate portare le insegne sulla lizza, fuori del castello di San Clemente. E fatelo subito!»
Si voltò al giovane prete, con più pacatezza: anch’egli, prima della nomina a Vescovo, non ancora trentenne, aveva ricoperto la sua stessa carica e chissà che da lì a qualche giorno non sarebbe toccato proprio a lui sostituirlo a capo della Chiesa aretina.
«Sapete, il vostro Vescovo condurrà l’oste ghibellina all’assalto di quella guelfa, e difenderà le nostre terre con la spada, nel nome di Dio e di San Donato». Nella voce una vena di mestizia. Il prete chinò il capo, mentre Guglielmino infilava la porta diretto alle sue stanze.
Guido Novello lo guardò andar via con un’espressione strana, da non capire cosa gli spesse passando per la testa, ma l’Arcidiacono neanche se ne accorse.

Nel medesimo istante la Berta, magnifica nella veste azzurra, fece il suo ingresso nella casa del notaio Bernardo, in contrada dell’Orto.
«Oggi dobbiamo adempiere un rito un po’ insolito» le spiegò messer Bernardo incontrandola nel vestibolo ed ammirandone le forme esaltate dall’abito: «dobbiamo concentrare in un sol giorno gli atti preparatori e quelli conclusivi delle nozze. Ma questo lo sapete già e perciò vi prego di pazientare qui finché non vi farò chiamare».
La Berta annuì, girando gli occhi a due sedioli di legno intarsiati e alla raffinatezza dell’arazzo appeso ad una delle pareti.
Nello studio, data lettura delle clausole del matrimonio che Mauro aveva già sottoscritto giorni prima, mastro Bencio si accinse a siglarle a sua volta.
Portata quindi una preziosa Bibbia miniata, Mauro vi posò la mano destra e pronunciò, di fronte ai cavalieri chiamati a testimoni, il giuramento del parentado, col quale si impegnava formalmente a condurre in porto le nozze. Si sarebbe anch’esso dovuto svolgere al momento della promessa, il giorno dell’Annunziata, ma tant’è. Istintivamente portò la mano al sacchetto dell’anello appeso alla cintura, e sorrise.
Venne introdotta la sposa e i loro occhi non si lasciarono più mentre rispondevano alle domande del notaio. Le mani sudavano e nel pronunciare le risposte la loro voce ebbe vibrazioni d’emozione.
Alla fine, invitato da ser Bernardo, Mauro estrasse l’anello, non senza qualche difficoltà nello sciogliere la cordicella che stringeva il sacchetto. Mastro Bencio, da parte sua, si fece avanti, prese la mano destra di sua figlia e la sostenne con dolcezza. I due sposi continuavano a fissarsi e fu il notaio a dover indirizzare le mani perché l’anello andasse al suo posto.

Fuori, le campane cominciarono a suonare insistenti.
«Lunga vita agli sposi!» esclamò Ghigo.
«Suonano per voi?» chiese incredulo il notaio mentre lo scampanio copriva la sua voce. Aveva cominciato quella grossa della Pieve, seguita quasi subito dalla campana grande di San Pietro Maggiore. Fra le due si frammisero i rintocchi un po’ fessi di San Pier Piccolo e via via tutte le altre, in un richiamo prodotto solo dai bronzi grossi. Come suonassero a morto, ma con un ritmo più serrato; come a martello, ma meno precipitose.
Bencio fu il primo a capire: «E’ una convocazione generale, c’è qualcosa di grosso, in ballo».
Pietro lo guardò costernato: «Tra un’ora il Vescovo deve benedire questa unione: l’ha promesso!»
Il vasaro allargò le braccia: «I primi rintocchi son venuti dalla Pieve e quindi immagino che l’assemblea sarà alla piazza del Comune, purtroppo».
Mentre infatti le grandi decisioni sulla vita interna alla città si discutevano sul colle delle Cattedrali, la convocazione alla Platea Communis poteva significare solo una nuova guerra.
La festa s’interruppe. Salirono alla Cattedrale, e la Berta si teneva stretta al suo Mauro.
Al pozzo di Tofano si dovettero fermare, per udire da un araldo la conferma delle previsioni di Bencio: la città era convocata in assemblea, per l’ora nona, alla piazza del Comune.

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