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Avevano
scelto di raggiungere il mercatale di Civitella dalla via senese del Presciano:
sarebbero arrivati dall’alto del poggio di Gaenne, ottenendo un chiaro
vantaggio strategico. Per sovrappiù vi sorgeva un maniero proprietà degli
stessi Tarlati, che lo usavano per controllare i movimenti del Vescovo. Il
mercatale di Civitella occupava una sella della giogaia di monti che separano
la valle del Chiana da quella dell’Ambra.
Era un crocevia di antiche strade:
oltre a quella che scendeva da Gaenne, vi passava la via dei mercanti che dal
Granaio della Fonte al Ronco portava alla Badia di Agnano e da qui al Valdarno
e a Firenze; e poi la via di Dorna, che saliva dalla Pieve del Toppo per la
Badia al Pino, la via che conduceva a Siena attraverso Ciggiano e Gargonza, ed
altre minori che vi giungevano dai tanti borghi di quella parte della Toscana
orientale.
Le
insegne ghibelline avanzavano nei boschi di querce secolari dai rami ancora
spogli. Brevi radure permettevano di stendere lo sguardo sui campi di grano del
Pian di Loreto e sulle viti del Poggio di San Martino.
Superata
la torre di Bucinino, le avanguardie dell’oste scorsero il castello di
Civitella, a corona d’uno stretto crinale che s’allungava verso il sole
calante. I ghibellini di Arezzo già una volta ne avevano distrutto il mastio,
ma Guglielmino l’aveva prontamente ricostruito, e ora svettava di fronte a
loro, come a sfidarli. Più vicino e più in basso, nella sella che s’è
descritta, i cavalieri videro anche il mercatale e lo scoprirono affollato: il
crocicchio non riusciva a contenere la macchia rossa e oro delle insegne degli
Ubertini e dei Pazzi; il leone rampante sulle sopravvesti, sulle palandrane dei
cavalli, sui vessilli, e sugli scudi del Vescovo, e l’indentato di suo nipote, dagli
stessi colori, si allungavano sulle vie che convergevano al mercatale.
«Hanno
messo le cottardite anche ai fanti» sibilò il Podestà, «per impressionarci e
sembrare più numerosi!»
Giunta
non riusciva a pensare alla guerra.
Non
vedeva nemici, nelle insegne avute tante volte al suo fianco: con quegli stessi
cavalieri s’era trovato, appena l’anno prima, nel fango delle paludi del Toppo,
e l’idea di battersi ora contro di loro gli sembrava assurda. Sputò per terra.
Guido
Novello e il Tarlati fermarono l’oste su un pianoro a qualche centinaio di
passi dallo schieramento avverso, in posizione dominante.
«Quando
è troppo, è troppo!» Guglielmo
dei Pazzi s’agitava nell’angusta camera al secondo piano del mastio, mentre lo zio
Vescovo pareva ignorarlo, con gli occhi fissi alla porzione di cielo che
riusciva a vedere dalla finestrella.
«Possibile
che io, vostro nipote, debba venire a conoscenza d’una trattativa tanto
delicata da quell’arrogante del Tarlati e da quel vigliacco di Guido Novello!?
Che valore ha, per voi, la famiglia? Che significa la parola consorteria? Dite!»
L’Ubertini
interruppe quello sfogo: «Più
una trattativa è importante, meno va messa in piazza». Il suo tono non era di scuse.
«E’
questa dunque la considerazione che avete per me? Prima mi spedite sul San
Donato, poi bloccate quell’impresa sul più bello, ed ora per i vostri maneggi
rischiate una guerra tra Aretini. Credete che non avrei saputo tenere il
segreto?»
«Tu
non eri coinvolto»
«E
ora? Ora che tutti sanno e tutti sono arrabbiati, son coinvolto, ora?»
«Ora
non c’è più trattativa».
Finalmente
il Vescovo si voltò, e il suo sguardo era triste. «Ora non c’è più niente»
«Ma
perché, dite, trattare con Firenze? Perché mettere in gioco i vostri castelli e
il controllo delle ferriere del Casentino?»
«Davvero
non capisci? Loro sanno fare i mercanti, sai, e pensano in grande»
«Ma
se li avete sempre disprezzati, per questo!»
«Adesso
han bisogno di noi, del nostro acciaio per le armi, tante armi, da vendere ai
potenti di tutta Europa»
«Bene,
che vengano: comprano, pagano e si portano via tutte le spade che vogliono.
Alle nostre condizioni, però, e ognuno continua a comandare a casa propria».
Il
Vescovo stava per perdere la pazienza: «Se
tu fossi il Re di Francia, dimmi, firmeresti un contratto coi Fiorentini per
rifornir di spade l’intero esercito sapendo che le fabbriche sono in mano ai
loro nemici?»
Il
nervosismo del Pazzi aumentava: «E
allora diamoci a Firenze! Per i loro fiorini diventiamo guelfi e mercanti anche
noi!»
«Ci
sono tre modi per far le cose: se sei forte fai la guerra, se sei ricco compri,
e se non sei né ricco né forte, allora tratti»
«Ma
noi la guerra la sappiamo fare!»
«Questo
lo vedremo presto, molto presto».
«Mandiamo
un messo a chieder la resa» propose il Podestà, che sperava ancora di evitar lo
scontro.
Il
messo partì, bandiera bianca sull’asta del vessillo coi colori del Comune. Lo
videro riferir l’intimazione, ascoltar la risposta e girare il cavallo per
tornare, quando all’improvviso, in un mulinar di polvere, due cavalieri scesero
dal castello e lo raggiunsero. Dopo un breve parlottare il messaggero tornò dai
Capitani dell’oste aretina, mentre i due rimasero in attesa raggiunti da un
terzo cavaliere, che anche da lontano si riconosceva senza fallo come Guglielmo
Pazzo.
«Il
Vescovo manda a dire che ormai è quasi sera, ed anche volendo non si potrà
ingaggiar battaglia fino a domani». Constatazione ovvia. «Il Vescovo propone di
adoprare il resto della giornata per discutere, come si deve fare tra
concittadini e sostenitori della stessa parte ghibellina, e vi invita a cena».
Prima
che Guido potesse dir la sua, fu Tarlato a replicare: «Non si sta a tavola con
i traditori! Quello che c’era da dire è stato detto. Se Guglielmino vuole
comunicarci nuove intenzioni, che richiami i suoi dentro le mura e scenda al
mercatale, solo!»
La
proposta suscitò mormorii di approvazione. Il messo ripartì, comunicò la
richiesta e tornò, mentre gli emissari dell’Ubertini galoppavano di nuovo verso
il castello.
Col
passar dei minuti saliva il nervosismo. Il Podestà ritenne utile far smontare i
cavalieri e ordinò ai fanti di raccoglier legna per i fuochi. Dietro la sagoma
scura della rocca di Civitella, il sole basso tingeva di rosa lunghe striature
di nubi leggere, promettendo anche per l’indomani una giornata limpida.
«Dobbiamo
provvedere al campo. Abbiamo giusto il tempo, prima che faccia buio» si
preoccupò Guido Novello.
Il
Tarlati corresse: «Non qui però. Siamo troppo esposti. Una compagnia di arcieri
basterà a frenare un eventuale attacco. Noi torneremo a Gaenne e il Ricoveri
farà da raccordo».
Giunta
annuì, ma senza entusiasmo: non gli piaceva l’incarico, che l’avrebbe tenuto
sveglio tutta la notte, e gli sembrava folle tutta quella spedizione. Stava per
dirlo, quando giù al mercatale qualcosa si mosse. Anzi, guardando meglio
apparve chiaro che il movimento era generale: i cavalieri si portarono al
centro del crocicchio, i palvesari si caricarono i pesanti scudi sulle spalle,
le linee più distanti si disposero a convergere ed infine, in ordine perfetto e
perfin bello a vedersi, la macchia rosso e oro s’allungò dietro le insegne in
direzione del castello, lasciando visibili le bottegucce di legno abitualmente
usate per i commerci.
«Si
ritirano! Abbandonano il mercatale! Hanno accettato la nostra richiesta!» L’entusiasmo,
facile a propagarsi quanto la paura, percorse i ranghi dell’oste comunale.
“Finalmente si ragiona!” pensò Giunta.
In
breve l’incrocio rimase sgombro.
«Occupiamolo
noi!» gridò una voce dal mucchio.
«Fermi!»
ribatté Tarlato, che nel frattempo era risalito a cavallo, «Fermi, ché può
essere una trappola! Se vuol parlare, adesso tocca al Vescovo farsi avanti, e
da solo!»
Gli
occhi tornarono al crocicchio e dopo qualche minuto un drappello di cavalieri
spuntò dalla via del castello.
«Eccolo!»
fece un’altra voce anonima, ma ancora Tarlato frenò gli ardori dei suoi: «Non è
lui. Non c’è Guglielmino, in quel gruppetto!»
«Eppure…»
«Vedete
una mitria? Oppure i riflessi dorati del prezioso pastorale di sua eccellenza
il nostro amato presule, eh?» s’infuriò il Tarlati. «Credete che venga a
parlare vestito come uno qualunque? O non si presenterebbe forse in pompa
magna?»
Fissò
il Podestà: «Non c’è. E non verrà».
Fece
per voltare il cavallo verso Gaenne, quando Giunta gridò: «Vengono qui! Non si
fermano, ci vengono incontro».
In
effetti il drappello aveva superato le baracche del mercatale e risaliva verso
l’oste aretina. Davanti a tutti l’inconfondibile mole di Guglielmo Pazzo. Si
fermarono a tiro di voce.
«E
Guglielmino?» s’informò Guido Novello.
Il
Pazzo appariva in volto più scuro della sera che avanzava. Deglutì prima di
gridare con un tono che sapeva di minaccia: «Il Vescovo vi saluta. Chiede di
sapere perché siete qui».
Guardò
le facce dei Capitani di parte ghibellina e vi lesse lo stupore, lo stesso
provato da lui quando le medesime parole le aveva ascoltate dalla viva voce
dell’imprevedibile parente.
«Vi
manda a dire che se volete conferire con lui, sarà lieto di ricevervi domattina
dopo laudi nel suo palazzo di città, sul colle di San Pietro». Un mormorio
accolse quella frase e Guglielmo dovette alzar la voce per far udire l’ultima
parte del messaggio: «Rinnova comunque l’invito per i vostri Capitani a cenare
con lui». Il mormorio si fece dissenso aperto.
Il
Podestà chiese chiarimenti: «Dunque sua eccellenza sospende ogni trattativa con
Firenze?»
«Il
nostro e vostro signore mi incarica di dirvi che non sa di quale trattativa voi
parliate, giacché non ha trattative o parlamenti in corso con chicchessia,
avendo goduto d’un breve soggiorno nel suo castello di Civitella al solo scopo
di ritemprare le anziane membra e lo spirito affaticato»
«Ma
chi volete ingannare?» sbottò Tarlato.
«Il
nostro amato Guglielmino» incalzò il Pazzo, che segretamente cominciava ora a
godere dell’effetto delle sue parole sugli uditori, ammettendo in cuor suo che
ancora una volta il Vescovo aveva saputo girar la situazione in suo favore, «il
venerabile Guglielmino aveva già stabilito di rientrare in città domani per gli
affari impostigli dalla carica di pastore del gregge di Dio. Vi domanda perciò
di precederlo e di tornare alle vostre case, così da lasciargli libera la
strada del ritorno. Domani vi benedirà».
Si
accese una discussione tra chi si rallegrava e chi leggeva in quel cambio di
programma furberie ulteriori del Vescovo.
«Cosa
devo riferire al Vescovo?»
Guido
Novello aveva colto il senso della smentita di Guglielmino circa la trattativa
con Firenze: dire che non c’era mai stata significava almeno che non c’era più
e che i castelli del Casentino, e quindi anche i suoi, erano salvi. Pensò che
per far accettare la cosa a tutti doveva prender tempo.
«Nobile
Guglielmo, riferite al nostro Vescovo che Arezzo ghibellina valuterà domani la
sua proposta, se vorrà uscir dalla rocca e raggiungere questo pianoro per darci
di persona la sua benedizione domenicale»
«Vogliamo
vederlo cavalcare verso la città!» Rabbioso, Tarlato tentò di correggere la
piega presa dagli eventi, ma si rese conto che battaglia ormai non ci sarebbe
più stata.
«E
comunque per stasera s’è fatto troppo tardi per mettersi in strada, sia per noi
che per lui» concluse il Podestà. «Passeremo la notte a Gaenne e vi diamo
appuntamento qui, domattina, per dirvi le nostre conclusioni e sentir le
vostre. Se battaglia dovrà essere, non sarà di domenica, nel giorno del
Signore!»
Senz’altro
ribattere, Guglielmo e i suoi girarono i cavalli e se ne tornarono al galoppo
verso Civitella.
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