venerdì 8 maggio 2020

EPISODIO 28: ASSEDIO A CIVITELLA



Avevano scelto di raggiungere il mercatale di Civitella dalla via senese del Presciano: sarebbero arrivati dall’alto del poggio di Gaenne, ottenendo un chiaro vantaggio strategico. Per sovrappiù vi sorgeva un maniero proprietà degli stessi Tarlati, che lo usavano per controllare i movimenti del Vescovo. Il mercatale di Civitella occupava una sella della giogaia di monti che separano la valle del Chiana da quella dell’Ambra.
Era un crocevia di antiche strade: oltre a quella che scendeva da Gaenne, vi passava la via dei mercanti che dal Granaio della Fonte al Ronco portava alla Badia di Agnano e da qui al Valdarno e a Firenze; e poi la via di Dorna, che saliva dalla Pieve del Toppo per la Badia al Pino, la via che conduceva a Siena attraverso Ciggiano e Gargonza, ed altre minori che vi giungevano dai tanti borghi di quella parte della Toscana orientale.
Le insegne ghibelline avanzavano nei boschi di querce secolari dai rami ancora spogli. Brevi radure permettevano di stendere lo sguardo sui campi di grano del Pian di Loreto e sulle viti del Poggio di San Martino.
Superata la torre di Bucinino, le avanguardie dell’oste scorsero il castello di Civitella, a corona d’uno stretto crinale che s’allungava verso il sole calante. I ghibellini di Arezzo già una volta ne avevano distrutto il mastio, ma Guglielmino l’aveva prontamente ricostruito, e ora svettava di fronte a loro, come a sfidarli. Più vicino e più in basso, nella sella che s’è descritta, i cavalieri videro anche il mercatale e lo scoprirono affollato: il crocicchio non riusciva a contenere la macchia rossa e oro delle insegne degli Ubertini e dei Pazzi; il leone rampante sulle sopravvesti, sulle palandrane dei cavalli, sui vessilli, e sugli scudi del Vescovo, e l’indentato di suo nipote, dagli stessi colori, si allungavano sulle vie che convergevano al mercatale.
«Hanno messo le cottardite anche ai fanti» sibilò il Podestà, «per impressionarci e sembrare più numerosi!»
Giunta non riusciva a pensare alla guerra.
Non vedeva nemici, nelle insegne avute tante volte al suo fianco: con quegli stessi cavalieri s’era trovato, appena l’anno prima, nel fango delle paludi del Toppo, e l’idea di battersi ora contro di loro gli sembrava assurda. Sputò per terra.
Guido Novello e il Tarlati fermarono l’oste su un pianoro a qualche centinaio di passi dallo schieramento avverso, in posizione dominante.

«Quando è troppo, è troppo!» Guglielmo dei Pazzi s’agitava nell’angusta camera al secondo piano del mastio, mentre lo zio Vescovo pareva ignorarlo, con gli occhi fissi alla porzione di cielo che riusciva a vedere dalla finestrella.
«Possibile che io, vostro nipote, debba venire a conoscenza d’una trattativa tanto delicata da quell’arrogante del Tarlati e da quel vigliacco di Guido Novello!? Che valore ha, per voi, la famiglia? Che significa la parola consorteria? Dite!»
L’Ubertini interruppe quello sfogo: «Più una trattativa è importante, meno va messa in piazza». Il suo tono non era di scuse.
«E’ questa dunque la considerazione che avete per me? Prima mi spedite sul San Donato, poi bloccate quell’impresa sul più bello, ed ora per i vostri maneggi rischiate una guerra tra Aretini. Credete che non avrei saputo tenere il segreto?»
«Tu non eri coinvolto»
«E ora? Ora che tutti sanno e tutti sono arrabbiati, son coinvolto, ora?»
«Ora non c’è più trattativa».
Finalmente il Vescovo si voltò, e il suo sguardo era triste. «Ora non c’è più niente»
«Ma perché, dite, trattare con Firenze? Perché mettere in gioco i vostri castelli e il controllo delle ferriere del Casentino?»
«Davvero non capisci? Loro sanno fare i mercanti, sai, e pensano in grande»
«Ma se li avete sempre disprezzati, per questo!»
«Adesso han bisogno di noi, del nostro acciaio per le armi, tante armi, da vendere ai potenti di tutta Europa»
«Bene, che vengano: comprano, pagano e si portano via tutte le spade che vogliono. Alle nostre condizioni, però, e ognuno continua a comandare a casa propria».
Il Vescovo stava per perdere la pazienza: «Se tu fossi il Re di Francia, dimmi, firmeresti un contratto coi Fiorentini per rifornir di spade l’intero esercito sapendo che le fabbriche sono in mano ai loro nemici?»
Il nervosismo del Pazzi aumentava: «E allora diamoci a Firenze! Per i loro fiorini diventiamo guelfi e mercanti anche noi!»
«Ci sono tre modi per far le cose: se sei forte fai la guerra, se sei ricco compri, e se non sei né ricco né forte, allora tratti»
«Ma noi la guerra la sappiamo fare!»
«Questo lo vedremo presto, molto presto».

«Mandiamo un messo a chieder la resa» propose il Podestà, che sperava ancora di evitar lo scontro.
Il messo partì, bandiera bianca sull’asta del vessillo coi colori del Comune. Lo videro riferir l’intimazione, ascoltar la risposta e girare il cavallo per tornare, quando all’improvviso, in un mulinar di polvere, due cavalieri scesero dal castello e lo raggiunsero. Dopo un breve parlottare il messaggero tornò dai Capitani dell’oste aretina, mentre i due rimasero in attesa raggiunti da un terzo cavaliere, che anche da lontano si riconosceva senza fallo come Guglielmo Pazzo.
«Il Vescovo manda a dire che ormai è quasi sera, ed anche volendo non si potrà ingaggiar battaglia fino a domani». Constatazione ovvia. «Il Vescovo propone di adoprare il resto della giornata per discutere, come si deve fare tra concittadini e sostenitori della stessa parte ghibellina, e vi invita a cena».
Prima che Guido potesse dir la sua, fu Tarlato a replicare: «Non si sta a tavola con i traditori! Quello che c’era da dire è stato detto. Se Guglielmino vuole comunicarci nuove intenzioni, che richiami i suoi dentro le mura e scenda al mercatale, solo!»
La proposta suscitò mormorii di approvazione. Il messo ripartì, comunicò la richiesta e tornò, mentre gli emissari dell’Ubertini galoppavano di nuovo verso il castello.
Col passar dei minuti saliva il nervosismo. Il Podestà ritenne utile far smontare i cavalieri e ordinò ai fanti di raccoglier legna per i fuochi. Dietro la sagoma scura della rocca di Civitella, il sole basso tingeva di rosa lunghe striature di nubi leggere, promettendo anche per l’indomani una giornata limpida.
«Dobbiamo provvedere al campo. Abbiamo giusto il tempo, prima che faccia buio» si preoccupò Guido Novello.
Il Tarlati corresse: «Non qui però. Siamo troppo esposti. Una compagnia di arcieri basterà a frenare un eventuale attacco. Noi torneremo a Gaenne e il Ricoveri farà da raccordo».
Giunta annuì, ma senza entusiasmo: non gli piaceva l’incarico, che l’avrebbe tenuto sveglio tutta la notte, e gli sembrava folle tutta quella spedizione. Stava per dirlo, quando giù al mercatale qualcosa si mosse. Anzi, guardando meglio apparve chiaro che il movimento era generale: i cavalieri si portarono al centro del crocicchio, i palvesari si caricarono i pesanti scudi sulle spalle, le linee più distanti si disposero a convergere ed infine, in ordine perfetto e perfin bello a vedersi, la macchia rosso e oro s’allungò dietro le insegne in direzione del castello, lasciando visibili le bottegucce di legno abitualmente usate per i commerci.
«Si ritirano! Abbandonano il mercatale! Hanno accettato la nostra richiesta!» L’entusiasmo, facile a propagarsi quanto la paura, percorse i ranghi dell’oste comunale. “Finalmente si ragiona!” pensò Giunta.
In breve l’incrocio rimase sgombro.
«Occupiamolo noi!» gridò una voce dal mucchio.
«Fermi!» ribatté Tarlato, che nel frattempo era risalito a cavallo, «Fermi, ché può essere una trappola! Se vuol parlare, adesso tocca al Vescovo farsi avanti, e da solo!»
Gli occhi tornarono al crocicchio e dopo qualche minuto un drappello di cavalieri spuntò dalla via del castello.
«Eccolo!» fece un’altra voce anonima, ma ancora Tarlato frenò gli ardori dei suoi: «Non è lui. Non c’è Guglielmino, in quel gruppetto!»
«Eppure…»
«Vedete una mitria? Oppure i riflessi dorati del prezioso pastorale di sua eccellenza il nostro amato presule, eh?» s’infuriò il Tarlati. «Credete che venga a parlare vestito come uno qualunque? O non si presenterebbe forse in pompa magna?»
Fissò il Podestà: «Non c’è. E non verrà».
Fece per voltare il cavallo verso Gaenne, quando Giunta gridò: «Vengono qui! Non si fermano, ci vengono incontro».
In effetti il drappello aveva superato le baracche del mercatale e risaliva verso l’oste aretina. Davanti a tutti l’inconfondibile mole di Guglielmo Pazzo. Si fermarono a tiro di voce.
«E Guglielmino?» s’informò Guido Novello.
Il Pazzo appariva in volto più scuro della sera che avanzava. Deglutì prima di gridare con un tono che sapeva di minaccia: «Il Vescovo vi saluta. Chiede di sapere perché siete qui».
Guardò le facce dei Capitani di parte ghibellina e vi lesse lo stupore, lo stesso provato da lui quando le medesime parole le aveva ascoltate dalla viva voce dell’imprevedibile parente.
«Vi manda a dire che se volete conferire con lui, sarà lieto di ricevervi domattina dopo laudi nel suo palazzo di città, sul colle di San Pietro». Un mormorio accolse quella frase e Guglielmo dovette alzar la voce per far udire l’ultima parte del messaggio: «Rinnova comunque l’invito per i vostri Capitani a cenare con lui». Il mormorio si fece dissenso aperto.
Il Podestà chiese chiarimenti: «Dunque sua eccellenza sospende ogni trattativa con Firenze?»
«Il nostro e vostro signore mi incarica di dirvi che non sa di quale trattativa voi parliate, giacché non ha trattative o parlamenti in corso con chicchessia, avendo goduto d’un breve soggiorno nel suo castello di Civitella al solo scopo di ritemprare le anziane membra e lo spirito affaticato»
«Ma chi volete ingannare?» sbottò Tarlato.
«Il nostro amato Guglielmino» incalzò il Pazzo, che segretamente cominciava ora a godere dell’effetto delle sue parole sugli uditori, ammettendo in cuor suo che ancora una volta il Vescovo aveva saputo girar la situazione in suo favore, «il venerabile Guglielmino aveva già stabilito di rientrare in città domani per gli affari impostigli dalla carica di pastore del gregge di Dio. Vi domanda perciò di precederlo e di tornare alle vostre case, così da lasciargli libera la strada del ritorno. Domani vi benedirà».
Si accese una discussione tra chi si rallegrava e chi leggeva in quel cambio di programma furberie ulteriori del Vescovo.
«Cosa devo riferire al Vescovo?»
Guido Novello aveva colto il senso della smentita di Guglielmino circa la trattativa con Firenze: dire che non c’era mai stata significava almeno che non c’era più e che i castelli del Casentino, e quindi anche i suoi, erano salvi. Pensò che per far accettare la cosa a tutti doveva prender tempo.
«Nobile Guglielmo, riferite al nostro Vescovo che Arezzo ghibellina valuterà domani la sua proposta, se vorrà uscir dalla rocca e raggiungere questo pianoro per darci di persona la sua benedizione domenicale»
«Vogliamo vederlo cavalcare verso la città!» Rabbioso, Tarlato tentò di correggere la piega presa dagli eventi, ma si rese conto che battaglia ormai non ci sarebbe più stata.
«E comunque per stasera s’è fatto troppo tardi per mettersi in strada, sia per noi che per lui» concluse il Podestà. «Passeremo la notte a Gaenne e vi diamo appuntamento qui, domattina, per dirvi le nostre conclusioni e sentir le vostre. Se battaglia dovrà essere, non sarà di domenica, nel giorno del Signore!»
Senz’altro ribattere, Guglielmo e i suoi girarono i cavalli e se ne tornarono al galoppo verso Civitella.

Nessun commento:

Posta un commento