sabato 16 maggio 2020

EPISODIO 35 - VERSO CAMPALDINO



Fra Giacomo, uscito come ogni mattina con scopa e badile a pulir lo spiazzo davanti al convento, s’appoggiò al Murello pensieroso: c’era una calma innaturale, per le vie d’Arezzo, deserte nonostante la bella stagione. Niente chiasso di bimbi, né ciarlar di comari; fermo il via vai dei commerci, assenti le usuali ronde di armati, nessun prete che salisse al Duomo o chierico che s’avviasse allo Studio; silenziosi pure i cantieri che di solito assordavano la città col loro fracasso. Sotto di lui, lungo la Ruga Mastra, era deserto anche il cantiere di casa Mauri.

Fuori della cinta, dalla parte di tramontano, una lunga processione di gente armata e di colorati vessilli s’allontanava dalla città sulla via Maggiore. Il ritmo cadenzato dei tamburi la spingeva verso Campaldino.
Poggiando i gomiti sul muro, giunse le mani in preghiera.
Mauro assecondava l’andatura del cavallo.
Passando il ponte sul torrente Classe, distolse lo sguardo dalle sue terre, covando la propria rabbia verso una sorte ingiusta che lo privava dei giorni più belli.
Ebbe nostalgia degli occhi della Berta, più vivi delle stelle, e dei capelli, più mossi della chioma del grande noce della corte. Le linee ondulate del Pratomagno gli ricordarono i fianchi di lei, il profilo dei colli i suoi seni rotondi, l’acqua dei torrenti le sue schiette risate. Tutto contribuiva ad aumentar la sua pena. Si fece male pensando all’unica notte passata con lei, lunga una vita e pur troppo corta, proprio come la vita.
Al suo fianco, anch’essi coi loro pensieri, Boso degli Azzi e Ghigo di Talzano.
Ghigo osservava le pendici boscose oltre il fiume con la mente alla morte di suo padre e alle maledizioni che sputava negli ultimi giorni insieme al sangue. Rivedeva gli occhi spenti e l’espressione rassegnata della madre, mentre guardandolo partire gli diceva: “Torna, mi raccomando”.
Anche la fronte di Boso era corrugata. Allo sguardo abitualmente triste s’aggiungeva un’inquietudine ansiosa, le mani tormentavano le briglie e correggevano di continuo la marcia del cavallo, che rispondeva con energiche scrollate del capo, scarti e rotture del passo. Non lo vedeva, il paesaggio ai lati della via, e neppure le piccole folle che facevano ala all’esercito. Fissava nel vuoto davanti a sé l’immagine della sua Ippolita e del piccolo Azzolino. Era partito in fretta, senza salutarli, impaziente di arrivare, quasi che la battaglia potesse lenire la pena che portava dentro, purificarla nel sangue e dargli pace invece che guerra.
I tre cavalcavano nell’assolato mattino estivo, e chi li osservava sfilare sulla via Maggiore dall’alto del castello di Sesto, dalle mura di Subbiano o dal sagrato della Pieve di Falciano, non notava differenze con gli altri cento e cento cavalieri che risalivano la valle, ognuno col suo carico di odio, di speranze e di conti da regolare. Sembavano in marcia verso la gloria, e il ritmo dei tamburi rassicurava non solo gli abitanti, ma la natura stessa: nessuno tema, perché Dio è con noi e il nemico verrà ricacciato. La vittoria non potrà mancare, un giorno di sangue varrà anni di pace e la vita tornerà a scorrere tranquilla, scandita dalle stagioni e dalle antiche regole feudali.
Le avanguardie dell’oste giunsero allo Spedaletto di Calbenzano verso l’ora sesta, sotto un sole canicolare, che rendeva roventi i ferri delle armi e insopportabile il peso dell’armatura; il sudore appiccicava le camicie al corpo, i tafani cacciati dalle code dei cavalli s’attaccavano fastidiosi alla pelle; lo scalpiccio degli zoccoli e lo strusciar dei calzari sospendevano a mezz’aria una polvere fine che si ficcava nelle narici seccando la gola; il frinir delle cicale ronzava insistente nelle orecchie, e un rapace descriveva lenti cerchi nel cielo pulito.
Più avanti, alla chiesa di Santa Mama, dove la strada costeggiava l’Arno, i reparti scesero al fiume per rinfrescarsi e far bere i cavalli, pressati dai Capitani a fare in fretta.
Poco dopo nona, lasciata Rassina alle spalle, apparvero finalmente le mura di Bibbiena, alte sul poggio: era il principale borgo del Casentino e l’oggetto più controverso della fallita trattativa coi Fiorentini. Il castello era dunque rimasto di proprietà del Vescovo, che vi ospitò quella sera i Capitani dell’oste, mentre gli altri montavano le tende fuori Porta dei Fabbri.


Al calar della sera, mentre il sole andava a cercar rifugio dietro il crinale del Pratomagno e i rintocchi chiamavano a vespro, i nostri tre amici si ritrovarono intorno al fuoco. Dopo la polvere e il sudore della marcia, ingannarono i tristi pensieri con un maialino arrosto e una botticella di vino. Riuscì, quel vino, anche a sciogliere un po’ le lingue.
Mauro si rivolse a Ghigo: «Dimmi di tuo padre».
Il ragazzo sospirò: «Non riesco ancora a dormire. Ogni notte vedo i suoi occhi invasati e sento le imprecazioni e le bestemmie, come echi d’un tuono che rimbomba tra le pareti d’un burrone, o come lampi accecanti che mi fanno sobbalzare, madido di sudore. Sempre così, notte dopo notte»
«Son solo incubi, e passan presto» intervenne Boso, come parlando tra sé.
«Sì, certo, passano quando mi sveglio e ci ragiono, cento volte per notte. È una maledizione che non mi lascia. È morto, lui, ma mi tiene ancora incatenato alla sua pazzia».
Guardò Mauro: «Tu hai visto com’era ridotto».
Appoggiò i gomiti sulle ginocchia fissando i propri piedi, ma il fardello dei ricordi era troppo gravoso e cercò di sviare il discorso invitando Mauro a parlar di sé: «Tu, piuttosto, non dovevi esser qui. Il grande Guglielmino s’è dunque rimangiato la parola: è bastato un sol giorno perché l’esonero concesso per le nozze fosse dimenticato!»
«Così pare». Nonostante il vino, gli argomenti di conversazione non erano allegri. Mauro, comunque, non poté proseguire il discorso, perché un portaordini coi colori dell’Ubertini lo interruppe: «Sua eccellenza monsignor Vescovo chiede che il nobile Mauri lo raggiunga nel salone del castello»
«Io!? Ha detto proprio che vuol parlare con me?»
«Questo è il messaggio»
«Vorrà farti le sue scuse» suppose Boso «forse ha di nuovo cambiato idea e ti rimanda dalla tua Berta»
«Fatti sentire» lo incalzò Ghigo, «ricordagli davanti a tutti quello che t’aveva promesso»
«Sì, sì» li assecondò mentre s’avviava, curioso di conoscere il vero motivo della convocazione, perché non credeva il Vescovo capace di tornar sui suoi passi due volte di seguito.
Sulla salita per il castello, chiavaioli calderai e ferraioli avevano già sprangato gli usci di bottega.

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