venerdì 29 maggio 2020

EPISODIO 37 - L'ARRIVO A POPPI



Il castello di Poppi dominava e domina ancora la piana dell’Arno, imponente e quadrato, eppure elegante per merito dell’alta torre. Arrivando da Bibbiena, appare da lontano come una sentinella sul fiume e sulle vie che corrono la fertile pianura, disegnata dalla fitta rete di orti e campi coltivati; il bosco che copre il pendio del colle pareva, in quell’inizio di giugno, un fresco nido di fronde, nel quale riposava sicuro anche il borgo. Una cinta di mura raccoglieva quelle case e quasi le costringeva sul breve crinale, dal castello fino alla sagoma dell’Abbazia di San Fedele, protettiva come fa una chioccia con i suoi pulcini.

La Gunfana, bandiera di guerra del Sacro Romano Impero, e l’aquila nera dell’insegna imperiale, portata da Guiderello d’Orvieto, precedevano il lento avanzare dell’oste ghibellina, guidata da Buonconte da Montefeltro e da Guglielmo dei Pazzi,.
Per ordine di Guglielmino, Mauro cavalcava subito dietro al Vescovo, e la sua bandiera azzurra con la mezza luna e la pantera rampante seguiva dappresso le insegne dell’Ubertini, d’oro al leone rosso. A fianco del presule cavalcava il grassoccio Vicario Imperiale Percivalle, con lo stendardo di famiglia bandato d’azzurro e d’argento. Anch’egli era un prelato, anzi, a stare alle voci, il prelato più ricco del mondo: la sua casata contava in quel secolo ben due papi e diversi cardinali, e lui godeva di vari feudi e molti canonicati, in Italia, in Francia e perfino nella lontana Inghilterra. Il Vescovo e il Vicario si scambiarono opinioni sulle cose della Chiesa e sui rapporti tra Niccolò IV e lo Zoppo d'Angiò. Il primo Papa francescano della storia non sembrava migliore dei suoi predecessori, sostenne Percivalle: era di umili origini ma gli era bastato un anno di pontificato per fargli dimenticare il voto di povertà. Guglielmino annuì.
Mauro notò che tutti e due portavano al fianco la mazza da guerra, perché ai religiosi era proibito usare armi da taglio ma non fracassare teste.
Dietro di loro Guido Novello inalberava l’arme primitiva dei Guidi, l’inquartato in croce di Sant'Andrea d’argento e di rosso al leone rampante. Osservò fiero il suo castello, e lo vide grande e splendido. Lo considerava una sua creatura, anche se in verità era opera più che altro del fratello Simone. Mauro ad un certo punto lo sentì mormorare: «Non temere: comunque vada, tu sarai salvo». Si voltò pensando d'esser l'oggetto della strana rassicurazione, e s'accorse con sorpresa che il Podestà guardava la sua dimora. Tentò di dare un senso a quelle parole. Ripensò al diverbio della sera prima con Neri Piccolino, all’accenno alla battaglia di Colle, alle accuse di viltà udite più volte e alla pessima opinione che di lui aveva suo padre Pietro: un tarlo cominciò a lavorare nella sua testa.
Dietro il Podestà venivano i nobili delle casate più in vista d’Arezzo, primo fra tutti Tarlato di Pietramala con i sei quadrati d’oro sull’azzurro delle sopravvesti. Erano con loro i Berlinghieri, i Caponsacchi e i Marabottini, tutti di Porta Crucifera, Giunta dei Ricoveri ed alcuni dei Bracci, di Porta del Foro.
Tra le famiglie del contado si distinguevano l’aquila a due teste dei Barbolani di Montauto, le insegne dei Bacci, degli Apolloni e dei Faggiolani. Ranieri dei Pazzi, fratello di Guglielmo, era circondato dai suoi e dagli Ubertini di Val d’Ambra.
Di quella schiera facevano parte anche Boso e il giovane Ghigo, che commentavano le strane sorti che muovono i destini umani: tirano in guerra uno poco più che ragazzo per la morte prematura di suo padre, ed un altro, fresco sposo, portano in armi per un malinteso, e ne fanno subito il donzello del Vescovo. A dire il vero era soprattutto Ghigo che rifletteva a voce alta, mentre Boso annuiva, assorto e quasi assente.
Alle loro spalle gli assoldati tedeschi, vestiti delle nere aquile dell’Imperatore, battevano a ritmo la polvere con gli zoccoli dei loro animali, sollevando una nube al di sopra della quale si agitavano i vessilli.
Veniva quindi il gruppo degli esiliati fiorentini, e vi potevi riconoscere le insegne degli Abati, d’azzurro al palo d’argento, o dei Lamberti, pure d’azzurro, ma ai sei cerchi d’oro, ed anche il bandato degli Scolari, cogli stessi colori. I Fifanti sfoggiavano le loro bande rosse sul fondo oro, mentre Lapo degli Uberti e Neri Piccolino avevano sugli scudi lo stemma partito, agli scacchi azzurro e oro a mancina e alla mezza aquila bruna a destra mano. Li spingeva un odio sordo e la sete di vendetta seccava le loro gole più della polvere o del caldo.
Dietro di loro i cavalieri delle amistà: Loccio da Montefeltro, fratello di Buonconte, il gonfalone della città d’Orvieto, il grifone alato di Perugia, gli altri Fieschi di Liguria e gli Ordelaffi di Romagna.
Ultimi tra i reparti montati le decine e decine di cavalcatori e berrovieri, gente senza nome ma di censo, obbligati dal Comune a fornire all’oste cavallate e salmerie secondo i loro averi, e che vestivano per lo più i colori dello stesso Comune: ricchi mercanti ed abili artigiani, non dissimili dai tanti che ingrossavano le fila fiorentine, con la differenza che i nostri erano aggregati, di rinforzo, chiamati a combattere ma non a decidere.
Camminava infine nella polvere la lunga fila dei pedoni, contadini senza insegne né colori, armati di pertiche forconi e roncole sottratte per l’occasione alle attività campestri: volti scuriti dal sole, pelli seccate dal vento, mani incallite dal lavoro, occhi svuotati dalla fatica e dalla fame. Camminavano per dovere d’obbedienza ai padroni, e per lucrare indulgenze sui propri peccati d’ira di violenza o d’ubriachezza. Speravano di riportare salva la pelle e magari di arraffare qualcosa di prezioso spogliando sul campo un cavaliere morto, nemico o amico che fosse. Camminavano seguendo un crocifisso e un gruppo di preti che avrebbero benedetto le armi prima dello scontro, invocato san Donato e raccolto le loro confessioni, assolvendoli dai peccati perché fossero pronti ad uccidere e a morire in grazia di Dio.
Chiudeva la lunga processione lo sferragliare dei carri, lo strusciar delle tregge e la paziente andatura dei muli con le salmerie, che s’affacciarono sulla piana dell’Arno quando la Gunfana era ormai al Ponte di Poppi, dove trovò già al campo gli armati dei Guidi di parte ghibellina.

Era sera sulle rive dell'Arno. Una sera ancora luminosa, che stemperava i colori delle cose verso i toni del grigio e stendeva una quinta rosata sui merli del castello, sul borgo e sul profilo di San Fedele. Pareva che il giorno non volesse morire e che la luce si riproducesse nei riflessi dell'acqua corrente.
Incantato dal luccichio, Mauro vi si era perso, quando Ghigo venne a sedersi su un masso vicino a lui: «Hai già fatto una rapida carriera». Boso stava in piedi a fissar la corrente.
«Pensavo a voi, oggi, cavalcando dietro al Vescovo. Avrei voluto sostenere lo scontro al vostro fianco»
«Ma va', ché ti sei ben sistemato!» scherzò il giovane.
«Boso» lo ignorò Mauro, «toccherà a te proteggerlo»
«No, non lo farò» rispose il nobile Azzi senza voltarsi. «In guerra come in amore ognuno per sé»
«Ma che dici? Proprio tu, che all'Ancisa sostenevi che in battaglia ci vogliono compagni leali e aiuto reciproco!»
«Questa è un'altra cosa»
«Ma chi vi ha chiesto niente!» sbottò Ghigo alzandosi. «Che protezione mi dovete dare, tutti e due? E da chi? Da quell'accozzaglia di grassi cambiavalute e di tessitori? Da quegli effeminati che si ungono i capelli?»
«Non li sottovalutare: sono tanti, molti più di noi»
«E io sono un ragazzo, eh? Su, dillo: è questo che pensate di me! Ma questo ragazzo vi farà vedere. Vi accorgerete come sa combattere un nobile di Talzano!» Pronunciò le ultime parole mentre si allontanava e l'ira gli spezzò la voce. O forse era un groppo che gli serrava la gola. Certo, per san Biagio protettore delle sue terre selvagge, aveva sperato di stare al loro fianco, trarne coraggio e insieme dar loro un po' del suo: in compagnia, si sa, il cuore si fa più forte. Ma se credevano che si umiliasse a chiedere, stavano freschi! Chi credevano d'essere? Boso, sempre chiuso e zitto, continuava a far pesare la sua pena. E Mauro? Quante arie, adesso che era a servizio del Vescovo! Ecco, magari sapeva e non aveva esitato a lasciar la sposa. Tanto le donne son sempre lì, mogli o mamme, che ti aspettano: sperano che ti copri di gloria, e temono di vederti tornare steso su un carro. Quando parti hai la simpatia di tutti, ma di fronte al nemico resti solo, tu e lui, e la Morte sceglie chi dei due rimandare a casa. Ghigo tirò un calcio rabbioso ad un sasso e si rifugiò nella tenda.
La luce del giorno lasciava il fiume, i canneti e le chiome degli alberi, cedendo all’inevitabile oscurità.
Mauro rimproverò Boso: «Accidenti a te, ma ti sei ammattito? Un po' ci pensavo, oggi, che l'incarico del Vescovo avrebbe guastato qualcosa, tra noi, ma non credevo questo. Che dovevo fare, secondo te? Rifiutare?»
«No, certo. E comunque tu non c'entri». Continuava a fissare l'Arno che adesso rifletteva i bagliori dei fuochi del campo. «E' che non posso». Fece una pausa. «Sabato, vedi, avrò altro da fare. Son venuto a combattere una battaglia diversa dalla vostra, una guerra solo mia, personale, capisci?»
«No, che non capisco»
«Sono qui per uccidere un fantasma, e se Ghigo venisse con me, sarebbe per morire»
«Che vuoi dire?»
«Non aver timore: farò il mio dovere. Vedrai quanti di quei maledetti spedirò all'inferno. È vero, son venuti in tanti, ma ti giuro che si pentiranno lo stesso d'aver varcato la Consuma. Io, però», s’avvicinò abbassando il tono di voce, «non ho rancore verso di loro. Non li amo, certo, ma neanche riesco ad odiarli. Li combatto perché stanno dall'altra parte e soprattutto perché ci minacciano, potrebbero invadere la nostra terra, imporci le loro regole e scardinare il nostro ordine»
«Tutti siamo qui per gli stessi motivi»
«Ma c’è uno, tra di loro, che odio davvero». Nei suoi occhi si accese un lampo. «Un nome che mi fa rimescolare il sangue nelle vene. Sarà lui che cercherò, sabato, appena le trombe daranno il via all'assalto. Chiederò d'esser messo tra i feditori della prima schiera e lo stanerò dovesse ripararsi dietro a cento uomini». Artigliò una spalla di Mauro fino a fargli male. «Ne ucciderò parecchi, ti dico, ma in ognuno è lui che ucciderò e la mia furia si placherà solo quando lo vedrò morto».
Lo sfogo lasciò Mauro smarrito. Lo guardò allontanarsi verso le tende, tra i fuochi che si stavano smorzando, e la memoria tornò a quella sera di due anni prima, nella fumosa taverna del Calderaio.

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