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Nel
salone del castello di Poppi il Vescovo aveva disposto, dal canto suo, che gli
sterratori si mettessero al lavoro per liberar la pianura da sterpi e cespugli,
e da ogni ostacolo che potesse frenare il galoppo dei cavalli: era un rito
antico, preparatorio della solenne cerimonia che si chiamava battaglia e che
così si svolgeva dai tempi dei tempi.
Come
un rito era anche la disposizione degli armati. A questo scopo Guglielmino
aveva riunito alcuni cavalieri.
«Faremo
una nutrita schiera di feditori per il primo cozzo» comunicò Buonconte.
«Saranno
trecento» precisò Guglielmo Pazzo: «divisi in dodici squadre da venticinque
cavalieri ognuna»
«Ed
ognuno di voi sarà il paladino di una squadra» intervenne il Vescovo. «I dodici
paladini. Siete i migliori, ed avrete la mia benedizione».
Buonconte
definì il piano d’attacco, semplice e diretto: «A voi toccherà sfondare le
linee guelfe, fino a dividerle in due in tre in quattro tronconi, od anche più.
La schiera grossa vi terrà dietro, e porterà lo scompiglio nei loro ranghi,
fino alla rotta e alla fuga. La fanteria arriverà a finir quel che ne resta».
L’uditorio
ascoltò attento le disposizioni del Capitano di Guerra. Figlio del gran conte
Guido di Montefeltro, Buonconte era ancora giovane, ma aveva l’arte militare
nel sangue: ne aveva succhiato i rudimenti insieme al latte materno, appreso le
astuzie nei giochi d’infanzia, coltivato la tecnica nei rivolgimenti
dell’adolescenza. Aveva visto suo padre cacciato dal feudo natio per le trame
pontificie, e giurato di riprendersi ciò che era suo. Portò ad Arezzo un folto
gruppo di uomini, e mise il campo al Prato della Giustizia, fuori porta Nova, per
dare man forte alle spedizioni ghibelline. Fu lui, l’anno prima, il vero artefice
della vittoria alla Pieve del Toppo.
Quando
ebbe finito, l’Ubertini stimò che fosse tempo di agire: «Bene, è ora di far
sapere ai Fiorentini perché siamo qui. Nobile Tarlati, a voi il compito di
presentare al campo nemico il gaggio di sfida: portatevi un manipolo di
cavalieri. Giovane Mauri, andate con lui».
L’ordine
inatteso fece trasalire Mauro, che poco dopo si ritrovò con gli altri a
cavalcare verso il campo guelfo. Ancora un rito, una formalità necessaria: tutto
andava fatto con onore.
La
polvere alzata dagli zoccoli si mescolò a quella delle zappe e dei picconi che
dissodavano la piana; manovali aretini dalla parte di Poppi e fiorentini
dall’altro lato si venivano incontro sporchi e sudati, dando l’impressione di
lavorare per una semina fuori stagione. I contadini si assomigliano tutti,
curvi a raschiar la terra, o a batterla con forza, inarcando le schiene brunite
dal sole. Al contadino che lavora non vedi il viso, e non hanno divisa o
sopravveste che li distingua, in realtà neppure la veste ma solo ruvide braghe
rimborsate alle cosce. Neanche ai cavalieri, però, rifletté Mauro, puoi vedere
il volto: hanno i colori dell’arme, dignità onore e prestanza, e di ciascuno
puoi dire “quello è messer Tal dei Tali signore del Tal castello e rampollo
della Tal casata”, eppure sembrano fatti in copia ed hai la sensazione che
dentro ogni armatura potrebbe starci chiunque, poco importa se biondo o bruno,
bello o brutto, intelligente o stolto, giovane o vecchio. L’usbergo in verità,
e la visiera dell’elmo e il suo cimiero, che sembrano dare potenza al
cavaliere, ne rinserrano invece lo spirito fin quasi a prendere il sopravvento
su di esso.
L’avvicinarsi
dei quartieri nemici gli fece abbandonare pensieri così strani per considerare
lo spiegamento delle forze avversarie. Arrivando dal basso pareva una città
provvisoria ma cospicua, percorsa da una frenetica agitazione.
Tre
cavalieri vennero incontro al manipolo, che s’arrestò ad un cenno del Tarlati.
I gigli d’oro in campo azzurro degli Angiò identificarono ai loro occhi Guillaume
de Durfort. Un altro, un fiorentino che reggeva l’insegna reale, vestiva
l’inquartato d’oro e di verde dei Tornaquinci, del sestiere di San Pancrazio.
Nel terzo Mauro riconobbe i colori e gli occhi di Rinaldo dei Bostoli.
Un
lungo silenzio, in cui sguardi fieri s’incrociarono senza cedimenti, precedette
le parole di Tarlato: «Il nostro Vescovo e signore m’incarica di dirvi che
siete sulle terre dei conti Guidi suoi alleati e vi chiede di lasciarle e
tornarvene con buona pace in Firenze. Qualora invece abbiate messo oste su di
esse e sopra la città di Arezzo così come pare, vi sfida ad ingaggiar battaglia
nella piana che divide i nostri due campi»
«Il
sire di Narbona, per tramite mio, fa sapere al vostro Vescovo che siamo venuti
fin qui per regolare i nostri conti e non ci ritireremo senza averlo fatto, e
questo sarà quando il nobile Guglielmino vorrà».
Il
ghibellino voltò il cavallo. «Domani» sentenziò prima di metterlo al galoppo,
seguito dai suoi.
«Bon,
à demain» confermò il francese.
Tutto
secondo le regole, la sfida era dichiarata e la parola passava alle armi.
Rinaldo
seguì con gli occhi le insegne del Pietramala e senza avvedersene fu scosso dai
movimenti involontari del collo e della spalla: aveva temuto che quel momento
non sarebbe mai giunto, ma adesso era nervoso. Osservò la piana, al centro
della quale gli sterratori dei due eserciti si fronteggiavano ora vicini, quasi
fossero loro i combattenti e stessero per dar vita allo scontro.
Era
ancora buio pesto quando la campana di San Fedele chiamò i frati a mattutino e
gli uomini alla guerra. Alla parte opposta della piana, i rintocchi della Pieve
di San Martino a Vado fecero lo stesso per i Fiorentini e una subitanea frenesia
percorse i due campi accendendoli di rumore e movimento.
S’era
vegliato, quella notte, aspettando l’alba con ansia crescente. Il mormorio
delle preghiere aveva fatto da sfondo al crepitio dei fuochi, al pianto di
qualche ragazzo impaurito, alla voce d’un anziano che narrava di battaglie
lontane o d’un prete che ricordava ai fanti straccioni la sorte che li
aspettava a giorno: «Memento homo quia pulvis es». Come se qualcuno avesse potuto
scordarlo.
Mauro
corse ad abbracciare Boso, che solo pareva non esser toccato dall’agitazione
generale e preparava invece il destriero con gesti meticolosi ma la testa
assente.
«Mi
raccomando, stai attento. Pensa a tua moglie e a tuo figlio e fa’ in modo di
tornar da loro, stasera».
Un
lampo accese gli occhi di Boso: «Quel che Dio vorrà».
Poi,
tirato fuori dall’usbergo un fazzoletto di lino, lo consegnò all’amico: «Lo ha
orlato Ippolita, con le sue mani, l’inverno passato, e vi ha ricamato lo stemma
degli Azzi. Quando son partito me l’ha dato per buona sorte e come pegno per un
felice ritorno. Riportalo a lei, e bacia Azzolino per me, se non dovessi
tornare». Poi riprese ad armeggiar con le cinghie.
Mauro
voleva replicare, per non lasciarlo così, ma si disse che era inutile. Annodato
il fazzoletto al polso mancino, si diresse verso la tenda di Ghigo mormorando
una preghiera.
«Vieni
con me» ordinò al ragazzo, e senza dar retta alle sue proteste, lo afferrò per
un braccio: «Ti farò accettare nella guardia del Vescovo».
Entrati
nel cortile del castello, quasi si scontrarono con Guglielmo Pazzo, scuro in
volto: «Proprio voi, giovane Mauri. Ho da chiedervi un favore». Lo disse col
tono imperioso di sempre, venato però di un’insolita condiscendenza: «Salite da
lui. Gli ho proposto di scambiare le insegne, ma non ne vuol sapere. Provate a
convincerlo voi».
Ghigo
e Mauro si guardarono, sorpresi dall’idea bizzarra, e il Pazzo s’affrettò a
chiarire: «Guglielmino è il nostro Capitano e i Fiorentini lo sanno bene. Chi
credete dunque che cercheranno, nella mischia? Come noi tenteremo di colpire il
sire di Narbona, così i guelfi vorranno il Vescovo: ucciso il capo, la
battaglia sarà vinta». Si voltò un attimo alle scale da cui era sceso: «Mi
chiedo quanta resistenza gli consentiranno i suoi settant’anni: è forte per la
sua età, ma in battaglia ci vuol ben altro. “Vestite i miei panni” gli ho detto
“mettete il mio elmo e impugnate il mio scudo, montate il mio destriero: coi
vostri colori addosso il nemico attaccherà me”. Non lo faccio per lui, badate,
ma per puro calcolo di strategia: se anche morissi la gioia dei guelfi sarebbe
breve, perché i nostri sapranno che il Vescovo li guida ancora e attaccheranno
con più vigore».
Mauro
guardò perplesso la porta del piano superiore, su in vetta alla scala. In quei
giorni aveva frequentato il Vescovo abbastanza per capirne il carattere: «Non
credo che si pieghi alla vostra richiesta. Guglielmino non è tipo da simili
sotterfugi: l’onore per lui vale più della vita».
C’era
quasi un rimprovero nelle parole di Mauro e il Pazzo ribatté stizzito: «Lo so bene.
Conosco mio zio, che credete? Ma per noi di più vale la vittoria, e dovete
convincerlo!»
«Tenteremo»
concesse Mauro senza convinzione, salendo i gradini mentre il nipote del
Vescovo lasciava il castello.
Trovarono
il vecchio condottiero già vestito di tutto punto: la cotta di maglia tirata a
lucido arrivava a proteggergli anche le mani e i piedi; il camaglio gli
contornava la testa, mettendo in vista il naso adunco, gli zigomi ossuti e la
barba come al solito ben curata; la sopravveste con l’arme degli Ubertini
lasciava intravedere un usbergo a placche di metallo, fissate alla pettorina di
cuoio cotto imbottita; sempre di cuoio la cintura stretta in vita, alla quale
però non erano appese armi; la mazza chiodata e lo scudo rotondo da cavaliere
giacevano sul pavimento accanto all’elmo col cimiero a ventaglio, appoggiati
all’inginocchiatoio sul quale aveva pregato tutta la notte.
Al
loro ingresso si alzò, nello sguardo un velo di tristezza. Frutto della notte
insonne, pensò Mauro, e anche dell’età. Ma c’era dell’altro, qualcosa che gli
sfuggiva: lo smarrimento di chi non riesce più a dominare gli eventi.
Trovandoselo così davanti, non se la sentì di mantenere la vaga promessa fatta
al nipote, e gli disse semplicemente: «Eminenza, è l’ora».
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