venerdì 29 maggio 2020

EPISODIO 39 - IL GAGGIO DI SFIDA



Nel salone del castello di Poppi il Vescovo aveva disposto, dal canto suo, che gli sterratori si mettessero al lavoro per liberar la pianura da sterpi e cespugli, e da ogni ostacolo che potesse frenare il galoppo dei cavalli: era un rito antico, preparatorio della solenne cerimonia che si chiamava battaglia e che così si svolgeva dai tempi dei tempi.

Come un rito era anche la disposizione degli armati. A questo scopo Guglielmino aveva riunito alcuni cavalieri.
«Faremo una nutrita schiera di feditori per il primo cozzo» comunicò Buonconte.
«Saranno trecento» precisò Guglielmo Pazzo: «divisi in dodici squadre da venticinque cavalieri ognuna»
«Ed ognuno di voi sarà il paladino di una squadra» intervenne il Vescovo. «I dodici paladini. Siete i migliori, ed avrete la mia benedizione».
Buonconte definì il piano d’attacco, semplice e diretto: «A voi toccherà sfondare le linee guelfe, fino a dividerle in due in tre in quattro tronconi, od anche più. La schiera grossa vi terrà dietro, e porterà lo scompiglio nei loro ranghi, fino alla rotta e alla fuga. La fanteria arriverà a finir quel che ne resta».
L’uditorio ascoltò attento le disposizioni del Capitano di Guerra. Figlio del gran conte Guido di Montefeltro, Buonconte era ancora giovane, ma aveva l’arte militare nel sangue: ne aveva succhiato i rudimenti insieme al latte materno, appreso le astuzie nei giochi d’infanzia, coltivato la tecnica nei rivolgimenti dell’adolescenza. Aveva visto suo padre cacciato dal feudo natio per le trame pontificie, e giurato di riprendersi ciò che era suo. Portò ad Arezzo un folto gruppo di uomini, e mise il campo al Prato della Giustizia, fuori porta Nova, per dare man forte alle spedizioni ghibelline. Fu lui, l’anno prima, il vero artefice della vittoria alla Pieve del Toppo.
Quando ebbe finito, l’Ubertini stimò che fosse tempo di agire: «Bene, è ora di far sapere ai Fiorentini perché siamo qui. Nobile Tarlati, a voi il compito di presentare al campo nemico il gaggio di sfida: portatevi un manipolo di cavalieri. Giovane Mauri, andate con lui».
L’ordine inatteso fece trasalire Mauro, che poco dopo si ritrovò con gli altri a cavalcare verso il campo guelfo. Ancora un rito, una formalità necessaria: tutto andava fatto con onore.
La polvere alzata dagli zoccoli si mescolò a quella delle zappe e dei picconi che dissodavano la piana; manovali aretini dalla parte di Poppi e fiorentini dall’altro lato si venivano incontro sporchi e sudati, dando l’impressione di lavorare per una semina fuori stagione. I contadini si assomigliano tutti, curvi a raschiar la terra, o a batterla con forza, inarcando le schiene brunite dal sole. Al contadino che lavora non vedi il viso, e non hanno divisa o sopravveste che li distingua, in realtà neppure la veste ma solo ruvide braghe rimborsate alle cosce. Neanche ai cavalieri, però, rifletté Mauro, puoi vedere il volto: hanno i colori dell’arme, dignità onore e prestanza, e di ciascuno puoi dire “quello è messer Tal dei Tali signore del Tal castello e rampollo della Tal casata”, eppure sembrano fatti in copia ed hai la sensazione che dentro ogni armatura potrebbe starci chiunque, poco importa se biondo o bruno, bello o brutto, intelligente o stolto, giovane o vecchio. L’usbergo in verità, e la visiera dell’elmo e il suo cimiero, che sembrano dare potenza al cavaliere, ne rinserrano invece lo spirito fin quasi a prendere il sopravvento su di esso.
L’avvicinarsi dei quartieri nemici gli fece abbandonare pensieri così strani per considerare lo spiegamento delle forze avversarie. Arrivando dal basso pareva una città provvisoria ma cospicua, percorsa da una frenetica agitazione.
Tre cavalieri vennero incontro al manipolo, che s’arrestò ad un cenno del Tarlati. I gigli d’oro in campo azzurro degli Angiò identificarono ai loro occhi Guillaume de Durfort. Un altro, un fiorentino che reggeva l’insegna reale, vestiva l’inquartato d’oro e di verde dei Tornaquinci, del sestiere di San Pancrazio. Nel terzo Mauro riconobbe i colori e gli occhi di Rinaldo dei Bostoli.
Un lungo silenzio, in cui sguardi fieri s’incrociarono senza cedimenti, precedette le parole di Tarlato: «Il nostro Vescovo e signore m’incarica di dirvi che siete sulle terre dei conti Guidi suoi alleati e vi chiede di lasciarle e tornarvene con buona pace in Firenze. Qualora invece abbiate messo oste su di esse e sopra la città di Arezzo così come pare, vi sfida ad ingaggiar battaglia nella piana che divide i nostri due campi»
«Il sire di Narbona, per tramite mio, fa sapere al vostro Vescovo che siamo venuti fin qui per regolare i nostri conti e non ci ritireremo senza averlo fatto, e questo sarà quando il nobile Guglielmino vorrà».
Il ghibellino voltò il cavallo. «Domani» sentenziò prima di metterlo al galoppo, seguito dai suoi.
«Bon, à demain» confermò il francese.
Tutto secondo le regole, la sfida era dichiarata e la parola passava alle armi.
Rinaldo seguì con gli occhi le insegne del Pietramala e senza avvedersene fu scosso dai movimenti involontari del collo e della spalla: aveva temuto che quel momento non sarebbe mai giunto, ma adesso era nervoso. Osservò la piana, al centro della quale gli sterratori dei due eserciti si fronteggiavano ora vicini, quasi fossero loro i combattenti e stessero per dar vita allo scontro.

Era ancora buio pesto quando la campana di San Fedele chiamò i frati a mattutino e gli uomini alla guerra. Alla parte opposta della piana, i rintocchi della Pieve di San Martino a Vado fecero lo stesso per i Fiorentini e una subitanea frenesia percorse i due campi accendendoli di rumore e movimento.
S’era vegliato, quella notte, aspettando l’alba con ansia crescente. Il mormorio delle preghiere aveva fatto da sfondo al crepitio dei fuochi, al pianto di qualche ragazzo impaurito, alla voce d’un anziano che narrava di battaglie lontane o d’un prete che ricordava ai fanti straccioni la sorte che li aspettava a giorno: «Memento homo quia pulvis es». Come se qualcuno avesse potuto scordarlo.
Mauro corse ad abbracciare Boso, che solo pareva non esser toccato dall’agitazione generale e preparava invece il destriero con gesti meticolosi ma la testa assente.
«Mi raccomando, stai attento. Pensa a tua moglie e a tuo figlio e fa’ in modo di tornar da loro, stasera».
Un lampo accese gli occhi di Boso: «Quel che Dio vorrà».
Poi, tirato fuori dall’usbergo un fazzoletto di lino, lo consegnò all’amico: «Lo ha orlato Ippolita, con le sue mani, l’inverno passato, e vi ha ricamato lo stemma degli Azzi. Quando son partito me l’ha dato per buona sorte e come pegno per un felice ritorno. Riportalo a lei, e bacia Azzolino per me, se non dovessi tornare». Poi riprese ad armeggiar con le cinghie.
Mauro voleva replicare, per non lasciarlo così, ma si disse che era inutile. Annodato il fazzoletto al polso mancino, si diresse verso la tenda di Ghigo mormorando una preghiera.
«Vieni con me» ordinò al ragazzo, e senza dar retta alle sue proteste, lo afferrò per un braccio: «Ti farò accettare nella guardia del Vescovo».
Entrati nel cortile del castello, quasi si scontrarono con Guglielmo Pazzo, scuro in volto: «Proprio voi, giovane Mauri. Ho da chiedervi un favore». Lo disse col tono imperioso di sempre, venato però di un’insolita condiscendenza: «Salite da lui. Gli ho proposto di scambiare le insegne, ma non ne vuol sapere. Provate a convincerlo voi».
Ghigo e Mauro si guardarono, sorpresi dall’idea bizzarra, e il Pazzo s’affrettò a chiarire: «Guglielmino è il nostro Capitano e i Fiorentini lo sanno bene. Chi credete dunque che cercheranno, nella mischia? Come noi tenteremo di colpire il sire di Narbona, così i guelfi vorranno il Vescovo: ucciso il capo, la battaglia sarà vinta». Si voltò un attimo alle scale da cui era sceso: «Mi chiedo quanta resistenza gli consentiranno i suoi settant’anni: è forte per la sua età, ma in battaglia ci vuol ben altro. “Vestite i miei panni” gli ho detto “mettete il mio elmo e impugnate il mio scudo, montate il mio destriero: coi vostri colori addosso il nemico attaccherà me”. Non lo faccio per lui, badate, ma per puro calcolo di strategia: se anche morissi la gioia dei guelfi sarebbe breve, perché i nostri sapranno che il Vescovo li guida ancora e attaccheranno con più vigore».
Mauro guardò perplesso la porta del piano superiore, su in vetta alla scala. In quei giorni aveva frequentato il Vescovo abbastanza per capirne il carattere: «Non credo che si pieghi alla vostra richiesta. Guglielmino non è tipo da simili sotterfugi: l’onore per lui vale più della vita».
C’era quasi un rimprovero nelle parole di Mauro e il Pazzo ribatté stizzito: «Lo so bene. Conosco mio zio, che credete? Ma per noi di più vale la vittoria, e dovete convincerlo!»
«Tenteremo» concesse Mauro senza convinzione, salendo i gradini mentre il nipote del Vescovo lasciava il castello.
Trovarono il vecchio condottiero già vestito di tutto punto: la cotta di maglia tirata a lucido arrivava a proteggergli anche le mani e i piedi; il camaglio gli contornava la testa, mettendo in vista il naso adunco, gli zigomi ossuti e la barba come al solito ben curata; la sopravveste con l’arme degli Ubertini lasciava intravedere un usbergo a placche di metallo, fissate alla pettorina di cuoio cotto imbottita; sempre di cuoio la cintura stretta in vita, alla quale però non erano appese armi; la mazza chiodata e lo scudo rotondo da cavaliere giacevano sul pavimento accanto all’elmo col cimiero a ventaglio, appoggiati all’inginocchiatoio sul quale aveva pregato tutta la notte.
Al loro ingresso si alzò, nello sguardo un velo di tristezza. Frutto della notte insonne, pensò Mauro, e anche dell’età. Ma c’era dell’altro, qualcosa che gli sfuggiva: lo smarrimento di chi non riesce più a dominare gli eventi. Trovandoselo così davanti, non se la sentì di mantenere la vaga promessa fatta al nipote, e gli disse semplicemente: «Eminenza, è l’ora».

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