«Menchino, dove sei? Vieni
fuori, ché i pollacchi son partiti».
Proprio così chiamavano, gli
aretini, le truppe del generale Dabrowski: pollacchi
con due elle, e lo stesso comandante diventò Don Broschi. Neanche i francesi, del resto, godevano di maggior
rispetto tra il popolo, che li chiamava nuvoloni
perché ogni loro editto iniziava con le parole Nous Voulons.
Ma c’era poco da ridere, in
quella primavera del 1799.
Erano tempi di carestia e per di più il 25 marzo l’armata
francese era entrata in Firenze, violando la neutralità del Granducato. Dal 6
aprile il capitano Lavergne comandava la piazza di Arezzo per portare la
libertà di Napoleone ai fratelli oppressi dai nobili e dal clero.
Menchino però ignorava tutto
questo: era solo un ragazzino di dieci anni, garzone in casa di due preti e
della loro anziana madre, nel villaggio
detto il Bastardo. Quando il prelato più giovane disse che a Rezzo erano arrivati i francesi, lui non
capì perché mostrasse tanta paura.
Finché un mattino di maggio l’eccitazione
pervase il piccolo paese. A cena Menchino seppe dai padroni che parecchi
contadini della zona, comandati da un certo Rossi delle Poggiola, erano andati in
città con roncole e bastoni, cacciando i francesi al grido di “Viva Maria!”.
Del potere della Vergine s’era
persuaso fin da quando la
Madonna del Conforto aveva placato il terremoto, e non si
meravigliò che il suo solo nome mettesse in fuga i nemici. Semmai non gli era
chiaro perché ce l’avesse coi francesi.
I due preti avevano la
risposta: «Quei senza Dio hanno spogliato le chiese e imposto tasse esose! Nei
tumulti c’è scappato qualche morto, ma ora le cose torneranno al loro posto,
insieme al Granduca».
Invece non passò una settimana
che si seppe dei pollacchi: avevano
preso Cortona e venivano verso Arezzo per riportarvi i francesi. Il 14 maggio, al
Ghetto di Vitiano, contadini armati di schioppo s’appostarono nei fossi sparando
sull’avanguardia polacca e uccidendo il colonnello Chamand. Il fatto scatenò le
ire di Dabrowski, che ordinò immediate rappresaglie: case bruciate, uomini
fucilati, donne violentate, bambini passati a fil di spada.
Al Bastardo i truci racconti di
quella giornata precedettero l’arrivo delle truppe. Quando nel pomeriggio
Dabrowski, saputo che forze aretine bloccavano la sella dell’Olmo, rinunciò a
marciare sulla città e deviò proprio verso il paese, la gente terrorizzata si
mise in fuga. Sprangati gli usci, scapparono tutti verso i boschi, eccetto i
due preti, che non se la sentirono di abbandonare la vecchia madre. Menchino
restò con loro.
«Lasciamo aperto l’uscio come
segno di benvenuto» decise il più anziano «e forse ci tratteranno bene».
Al tramonto si sentirono i
tamburi e l’armata polacca s’accampò per la notte proprio fuori dell’abitato. Un
drappello di soldati perlustrò il villaggio, trovò i preti e il ragazzo e li
portò dal generale. Dabrowski li interrogò ma fu umano. Quando decise di
rilasciarli, i due, come segno di gratitudine, si offrirono di ospitarlo a
cena.
Menchino tremava come una
foglia, apparecchiò in fretta e poi corse a nascondersi sotto il letto della
vecchia, da cui la mattina dopo non voleva ancora uscire.
«Allora, Menchino, sei morto? Scendi,
ché son iti via!».
Alla fine si convinse.
«Va’ giù in cantina a vedere se
hanno lasciato qualcosa».
Il ragazzo sentiva ancora la
paura in corpo, ma obbedì. Afferrò una bugia, ne accese il moccolo e scese piano:
il locale sembrava in ordine. L’afrore di vino gli pareva più forte del solito
ma le botti erano intatte. C’erano rimaste perfino due forme di cacio.
D’un tratto inciampò su
qualcosa e rovinò lungo disteso, col viso immerso in una pozza di vino. La
bugia gli sfuggì di mano e la candela si spense. Cercò di rialzarsi a tentoni,
ma s’irrigidì tastando uno stivale. Poi nel buio totale la sua mano gli disegnò
il profilo d’una gamba coperta dalle braghe attillate d’una divisa polacca. Scattò
in piedi quando quello si mosse ronfando un fiato mefitico da ubriaco.
Fuggì alla cieca. Incespicò sui
pioli della scala, risalì carponi, corse al portone e si ritrovò sull’aia. Attraversò
il paese deserto e proseguì trafelato verso i boschi, finché sulla via di
Carnesecca fu fermato da un gruppo di sfollati che avevano udito i tamburi
dell’armata allontanarsi verso il Cerro e tornavano guardinghi verso casa. Al
vederlo sconvolto pensarono al peggio.
«Che è successo?» gli chiesero
tutti insieme, ma non aveva più fiato. «Parla!»
Una donna si chinò su di lui: «Calmati,
su. Hanno fatto del male ai nostri preti?» Menchino la guardò e scosse il capo
facendo cenno di no.
«Alla vecchia…»
«Non so» disse. Poi deglutì, e
alla fine sibilò: «C’era un soldato, in cantina»
«Vivo o morto?»
«Morto, ma poi era vivo».
La donna si volse, parlottò
cogli uomini e una decina di contadini armati di bastoni si diresse verso la
casa. Uno di loro riapparve mezzora dopo. Nel frattempo il gruppo degli
sfollati s’era fatto più numeroso: famiglie intere uscivano via via dalla
macchia.
«Dunque?» chiesero in molti.
«Macché pollacchi! I preti stanno bene e non hanno visto nessuno»
«Ma allora?»
«Il ragazzo avrà sognato! La
paura fa brutti scherzi».
Menchino ci restò male. “Forse
è fuggito” voleva dire, ma gli venne da piangere e scappò a nascondersi.
Nelle settimane successive, aspettando
il ritorno del Granduca, gli aretini presero Siena in nome della Madonna, e poi
Firenze Prato Pistoia e Livorno. In settembre entrarono in Perugia, ma il Granduca Ferdinando, che era fuggito in
Austria, rimase a Vienna: non aveva ordinato lui la rivolta e pretese che gli insorti
si fermassero. In breve l’insurrezione finì. La carestia, invece, durò ancora
parecchio.
Anni dopo Menchino, ormai
adulto, udì dal racconto d’un vecchio che in una casa del Bastardo, ai tempi
del “Viva Maria”, un pollacco ubriaco
era stato ucciso e bruciato nel forno dal pane. Secondo il vecchio gli
assassini s’erano tenuti gli stivali del morto e Menchino rammentò d’aver visto
un contadino del paese, nell’inverno del ’99, pavoneggiarsi dentro un paio di
stivali nuovi.
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