martedì 2 giugno 2020

I POLLACCHI - racconto


«Menchino, dove sei? Vieni fuori, ché i pollacchi son partiti».
Proprio così chiamavano, gli aretini, le truppe del generale Dabrowski: pollacchi con due elle, e lo stesso comandante diventò Don Broschi. Neanche i francesi, del resto, godevano di maggior rispetto tra il popolo, che li chiamava nuvoloni perché ogni loro editto iniziava con le parole Nous Voulons.
Ma c’era poco da ridere, in quella primavera del 1799.
Erano tempi di carestia e per di più il 25 marzo l’armata francese era entrata in Firenze, violando la neutralità del Granducato. Dal 6 aprile il capitano Lavergne comandava la piazza di Arezzo per portare la libertà di Napoleone ai fratelli oppressi dai nobili e dal clero.
Menchino però ignorava tutto questo: era solo un ragazzino di dieci anni, garzone in casa di due preti e della loro anziana madre,  nel villaggio detto il Bastardo. Quando il prelato più giovane disse che a Rezzo erano arrivati i francesi, lui non capì perché mostrasse tanta paura.
Finché un mattino di maggio l’eccitazione pervase il piccolo paese. A cena Menchino seppe dai padroni che parecchi contadini della zona, comandati da un certo Rossi delle Poggiola, erano andati in città con roncole e bastoni, cacciando i francesi al grido di “Viva Maria!”.
Del potere della Vergine s’era persuaso fin da quando la Madonna del Conforto aveva placato il terremoto, e non si meravigliò che il suo solo nome mettesse in fuga i nemici. Semmai non gli era chiaro perché ce l’avesse coi francesi.
I due preti avevano la risposta: «Quei senza Dio hanno spogliato le chiese e imposto tasse esose! Nei tumulti c’è scappato qualche morto, ma ora le cose torneranno al loro posto, insieme al Granduca».
Invece non passò una settimana che si seppe dei pollacchi: avevano preso Cortona e venivano verso Arezzo per riportarvi i francesi. Il 14 maggio, al Ghetto di Vitiano, contadini armati di schioppo s’appostarono nei fossi sparando sull’avanguardia polacca e uccidendo il colonnello Chamand. Il fatto scatenò le ire di Dabrowski, che ordinò immediate rappresaglie: case bruciate, uomini fucilati, donne violentate, bambini passati a fil di spada.
Al Bastardo i truci racconti di quella giornata precedettero l’arrivo delle truppe. Quando nel pomeriggio Dabrowski, saputo che forze aretine bloccavano la sella dell’Olmo, rinunciò a marciare sulla città e deviò proprio verso il paese, la gente terrorizzata si mise in fuga. Sprangati gli usci, scapparono tutti verso i boschi, eccetto i due preti, che non se la sentirono di abbandonare la vecchia madre. Menchino restò con loro.
«Lasciamo aperto l’uscio come segno di benvenuto» decise il più anziano «e forse ci tratteranno bene».
Al tramonto si sentirono i tamburi e l’armata polacca s’accampò per la notte proprio fuori dell’abitato. Un drappello di soldati perlustrò il villaggio, trovò i preti e il ragazzo e li portò dal generale. Dabrowski li interrogò ma fu umano. Quando decise di rilasciarli, i due, come segno di gratitudine, si offrirono di ospitarlo a cena.
Menchino tremava come una foglia, apparecchiò in fretta e poi corse a nascondersi sotto il letto della vecchia, da cui la mattina dopo non voleva ancora uscire.
«Allora, Menchino, sei morto? Scendi, ché son iti via!».
Alla fine si convinse.
«Va’ giù in cantina a vedere se hanno lasciato qualcosa».
Il ragazzo sentiva ancora la paura in corpo, ma obbedì. Afferrò una bugia, ne accese il moccolo e scese piano: il locale sembrava in ordine. L’afrore di vino gli pareva più forte del solito ma le botti erano intatte. C’erano rimaste perfino due forme di cacio.
D’un tratto inciampò su qualcosa e rovinò lungo disteso, col viso immerso in una pozza di vino. La bugia gli sfuggì di mano e la candela si spense. Cercò di rialzarsi a tentoni, ma s’irrigidì tastando uno stivale. Poi nel buio totale la sua mano gli disegnò il profilo d’una gamba coperta dalle braghe attillate d’una divisa polacca. Scattò in piedi quando quello si mosse ronfando un fiato mefitico da ubriaco.
Fuggì alla cieca. Incespicò sui pioli della scala, risalì carponi, corse al portone e si ritrovò sull’aia. Attraversò il paese deserto e proseguì trafelato verso i boschi, finché sulla via di Carnesecca fu fermato da un gruppo di sfollati che avevano udito i tamburi dell’armata allontanarsi verso il Cerro e tornavano guardinghi verso casa. Al vederlo sconvolto pensarono al peggio.
«Che è successo?» gli chiesero tutti insieme, ma non aveva più fiato. «Parla!»
Una donna si chinò su di lui: «Calmati, su. Hanno fatto del male ai nostri preti?» Menchino la guardò e scosse il capo facendo cenno di no.
«Alla vecchia…»
«Non so» disse. Poi deglutì, e alla fine sibilò: «C’era un soldato, in cantina»
«Vivo o morto?»
«Morto, ma poi era vivo».
La donna si volse, parlottò cogli uomini e una decina di contadini armati di bastoni si diresse verso la casa. Uno di loro riapparve mezzora dopo. Nel frattempo il gruppo degli sfollati s’era fatto più numeroso: famiglie intere uscivano via via dalla macchia.
«Dunque?» chiesero in molti.
«Macché pollacchi! I preti stanno bene e non hanno visto nessuno»
«Ma allora?»
«Il ragazzo avrà sognato! La paura fa brutti scherzi».
Menchino ci restò male. “Forse è fuggito” voleva dire, ma gli venne da piangere e scappò a nascondersi.
Nelle settimane successive, aspettando il ritorno del Granduca, gli aretini presero Siena in nome della Madonna, e poi Firenze Prato Pistoia e Livorno. In settembre entrarono in Perugia, ma  il Granduca Ferdinando, che era fuggito in Austria, rimase a Vienna: non aveva ordinato lui la rivolta e pretese che gli insorti si fermassero. In breve l’insurrezione finì. La carestia, invece, durò ancora parecchio.
Anni dopo Menchino, ormai adulto, udì dal racconto d’un vecchio che in una casa del Bastardo, ai tempi del “Viva Maria”, un pollacco ubriaco era stato ucciso e bruciato nel forno dal pane. Secondo il vecchio gli assassini s’erano tenuti gli stivali del morto e Menchino rammentò d’aver visto un contadino del paese, nell’inverno del ’99, pavoneggiarsi dentro un paio di stivali nuovi.

Nessun commento:

Posta un commento