Il 20 giugno del 1976 era una domenica
radiosa d’inizio estate. Dopo una settimana di piogge, inconsuete per il
periodo, il sole s’era fatto largo prepotente fin dal mattino presto.
Poco prima delle otto la 500L, intima e
compatta, ma blu, tettuccio apribile, volante piccolo, cloche bassa e
soprattutto sedili ribaltabili, risaliva con calma le curve dello sterrato di
montagna. Portava un giovanotto allampanato e una morettina tutto pepe:
andavano a sposarsi in un minuscolo villaggio nascosto tra i monti: una
chiesetta malmessa, una canonica agibile solo in parte, e poche case quasi
tutte vuote. Pareva impossibile che quel posto fosse stato vivo, un tempo, e
avesse avuto perfino una scuola elementare.
I due ragazzi guardavano la strada in
silenzio. Libero era pensieroso, gli occhi di Unica sognavano. Unica aveva due
fratelli ma per Libero quel nome era azzeccato lo stesso.
Il 20 giugno del 1976 era giorno di
elezioni politiche, e i due giovani non avrebbero rinunciato al voto per niente
al mondo, forse nemmeno per andare a sposarsi. S’erano alzati presto e la 500L
li aveva portati al seggio: alle sette e cinque avevano deposto le loro schede
nell’urna.
C’era in ballo il sorpasso: Berlinguer
aveva condotto il PCI ad essere il primo partito e si profilava quello che
venne chiamato compromesso storico. Dopo anni di lotte finalmente il Paese
poteva cambiare. Libero, di formazione cattolica, era impegnato nel sindacato e
guardava a sinistra. Il babbo di Unica era un ferroviere comunista che la
domenica andava in chiesa con l’Unità
in tasca.
Anche il matrimonio si sarebbe svolto in
chiesa, o per meglio dire fuori dalla chiesa.
Ma andiamo per ordine. Sul sedile
posteriore della 500L stavano i vestiti di nozze, stirati e piegati con cura:
camicetta e pantaloni azzurri per lei, ché mai Libero l’aveva vista con la
gonna, e beige per lui, con la camicia aderente e il pantalone a campana. Alla
vigilia avevano aggiunto un golfino in tinta, perché con tutta la pioggia di
quei giorni hai visto mai che non facesse freddo: in fondo s’era in montagna.
Sempre alla vigilia, Libero era stato
convocato in camera dalla nonna, che gli aveva messo in mano diecimila lire:
“Comprati una giubba, balacco, ché te fa omo!” Non era stato facile neppure
convincere la mamma della sposa, che aspirava per la figlia ad una cerimonia
classica con tanto di abito bianco.
Alla fine avevano vinto ogni resistenza,
con l’aiuto del prete che li avrebbe sposati, un biondino che aveva studiato
parecchio, diceva le omelie tenendo gli occhi chiusi, e aveva raccolto intorno
a sé frotte di giovani. Don Prete, come lo chiamavano i ragazzi, era di ampie
vedute, guardava anche lui a sinistra e non nascondeva il suo entusiasmo per le
scelte degli sposi.
Unica, maestrina dalle straordinarie
capacità artistiche, disegnò le partecipazioni ritraendo se stessa e il
promesso in una simpatica caricatura. Furono distribuite a parenti e amici con
l’invito per tutti a venire senza formalità, con chi volessero e vestiti
normalmente.
La mattinata del 20 giugno del 1976 fu
occupata dai preparativi. Per prima cosa un grande tavolo venne tirato fuori
dalla sacrestia e piazzato sul prato, proprio davanti alla porta della chiesa;
don Prete procurò la tovaglia, i ceri e i paramenti sacri, calice, pisside e
ampolline, leggìo e un voluminoso lezionario di quelli d’una volta, ma
naturalmente in italiano a norma di Concilio; sempre in sacrestia, qualcuno
rinvenne due bossoli di mortaio da 120, residuato bellico, perfetti come vasi
per i fiori sull’altare.
Già, i fiori. Nell’affanno dei
preparativi nessuno ci aveva pensato, ma la natura in giugno è generosamente
romantica: ginestre, papaveri e cento altre erbe spontanee fornirono un addobbo
rigoglioso e colorato.
Via via che attivavano gli invitati,
procedeva la preparazione del rinfresco. Parenti e amici, ciascuno portò
qualcosa: crostini, tartine, pane, affettato, formaggi, dolci fatti in casa e
biscotti. Da ultimo arrivarono anche le damigiane, una per il vino rosso e una per
il bianco, con le cannule per spillare direttamente nei bicchieri; e
naturalmente lo spumante, le moka per i caffè, e qualche liquorino digestivo.
Tutto insomma secondo le regole del perfetto banchetto agreste.
Libero e Unica si davano da fare,
scambiandosi ogni tanto occhiate compiaciute.
A mezzogiorno in punto don Prete fece
suonare le campane e ai convitati si unirono anche i pochi paesani.
“Io prendo te, Unica, come mia legittima
sposa”. A Libero tremò la voce. “E prometto di amarti per tutta la vita…”. Le
infilò l’anello.
“Ed io prendo te, Libero…”. L’anello non
voleva entrare al dito dello sposo e allora lui, con gesto deciso, lo spinse
oltre la nocca, fissandolo ammirato e un po’ stranito.
L’applauso risalì i versanti fino alle
cime verdi intorno, muovendo le foglie come un vento leggero. Don Prete prese
le mani degli sposi e le unì: nessuno divida ciò che Dio ha congiunto.
Dopo la benedizione, i bene! bravi! viva gli sposi! diedero il
via ai festeggiamenti. Ai consuoceri brillavano gli occhi. Tutti si strinsero
intorno ai due ragazzi: cominciava per loro una nuova vita, carica di sogni,
progetti, attese…
Il 20 giugno del 1976 il sorpasso si
verificò davvero e nelle settimane successive prese corpo il governo del
compromesso storico: anche per il Paese cominciava una nuova vita…
A sera gli sposi, tornati a valle,
salutarono gli invitati dal terrazzo dell’appartamento nuovo che avevano preso
in affitto e si chiusero dentro. Il giorno dopo misero una valigia sul sedile
posteriore della 500L, che li portò in viaggio di nozze.
Al ritorno, trovarono la lettera di
sfratto: il proprietario ci aveva ripensato e reclamava per sé l’appartamento.
Tornarono al lavoro e si misero a cercare una nuova sistemazione. Cominciava la
loro vita quotidiana.
Due anni dopo l’assassinio di Aldo Moro
mise fine agli anni dei diritti e delle conquiste: cominciava la lunga stagione
della ritirata verso l’incertezza e il precariato.
Il 20 giugno del 2020 Libero e Unica,
sopravvissuti, nell’ordine, allo sfratto, alla 500L, ai mutui, alla marcia dei
quarantamila della FIAT, al CAF, a Berlusconi, alla crisi del 2008, all’avvento
dell’era digitale e dei social e per ultimo al coronavirus, prendendo un caffè
al tavolino di plastica sul terrazzo, si chiesero quante soddisfazioni avrebbe
riservato loro ancora la vita.
Di
sotto li chiamò Costanza, la loro figliola. Sventolò un mazzo di chiavi e
disse: “Prendo la Panda”.
Nota:
questo è un racconto di fantasia, ma ogni riferimento a fatti o persone reali
non è affatto casuale.
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