Dopo due lunghi secoli la gente s’era ormai abituata ai longobardi. Tutti tranne Lucio, che li odiava per la loro protervia e il disprezzo che mostravano nei confronti dei romani come lui, superiori per cultura, storia e tradizioni, ma irrimediabilmente sconfitti dalla storia, e li odiava perché non vedeva chi potesse rovesciare il loro dominio. Anche Dio, pensava, come aveva potuto permettere che prevalessero loro? E la stessa chiesa, come s’era fatta raggirare dalla loro falsa conversione? Non erano altro che barbari pagani e tali restavano.
Era vero, accidenti, che la pace, imposta alle loro regole, reggeva ormai da decenni e alla gente poco importava chi fosse il padrone di turno, purché permettesse loro di sfamare le famiglie. Ed era vero che ad Arezzo la chiesa non s’era mostrata poi così arrendevole: aveva preso le difese dei deboli e era l’unica forza in grado di contrastare i dominatori. Per questo Lucio s’era deciso ad arruolarsi tra gli armati del vescovo. Era un giovane forte, allora, maneggiava la spada con abilità e questo gli avrebbe attirato il rispetto di tutti e magari avrebbe potuto anche far carriera.
Nell’anno della
salvezza 774 Lucio era ormai vecchio, ma non si era mai pentito della sua scelta:
non aveva fatto carriera, ma difendendo la cittadella di Pionta, sede della
cattedrale, s’era sentito ogni giorno baluardo contro lo strapotere longobardo.
Nella sua lunga vita ne aveva serviti cinque, di vescovi, ma la sua memoria
tornava sempre al primo di loro, Luperziano, un po’ perché il nome gli
ricordava i fasti dell’antica Roma, un po’ perché era stato eletto proprio
nell’anno 711, o forse l’anno dopo, non ricordava bene, comunque nella stessa
primavera in cui lui aveva preso servizio. E s’era trovato subito a doverlo
difendere.
All’alba d’una luminosa
giornata d’inizio estate, dopo che Luperziano ebbe pregato sulla tomba di san
Donato, il drappello di armati di cui faceva parte Lucio lo scortò a visitare
alcune pievi della diocesi. Le strade all’epoca erano pessime, ridotte per
lunghi tratti a poco più che mulattiere sconnesse, e capitava di cavalcare per
un’intera giornata senza vedere persona viva.
Impiegarono un paio di
settimane per arrivare a Pacina, nella Berardenga, dopo essersi fermati alla pieve
di Agnano, a quella del Presciano e infine a Santa Maria di Altaserra. Ad ogni
sosta accorreva gente a rendere omaggio al vescovo. Ognuno portava la propria
offerta e i presbiteri vi aggiungevano il loro contributo annuale. Si fermavano
tre o quattro giorni ed ogni mattina Luperziano cantava una messa solenne.
Prima di ripartire impartiva la cresima ai giovani battezzati e lasciava al
pievano le sue raccomandazioni scritte. I fedeli sapevano di dipendere dal vescovo
per la salvezza dell’anima ma anche per la vita terrena, e a lui si rivolgevano
per dirimere controversie civili e per far punire reati penali.
La visita pastorale
alla pieve di Pacina cominciò sotto i migliori auspici: li accolse il profilo
massiccio, quasi quadrato, della chiesa. Niente restava del tempio romano al
dio Bacco, e pochissimo dell’antico abitato: qualche povera capanna e la casa
in pietra dove i presbiteri facevano vita comune. Come sempre il comandante li
fece accampare sullo spiazzo davanti alla facciata, e il giorno dopo cominciò
il pellegrinaggio dei fedeli e la raccolta delle offerte. Stranamente, però, a
sera non s’era presentato nessuno a perorare cause civili né a denunciare
reati. La stranezza si ripeté il secondo giorno e Lucio, dopo aver consumato la
cena intorno al fuoco, ne chiese il motivo al comandante.
“E che ne so, io!”
rispose brusco. “I preti mica me le dicono, queste cose. Se però vuoi il mio
parere, è colpa dei senesi”.
“E quindi dei
longobardi” pensò Lucio senza dirlo.
I longobardi s’erano
installati a Siena con forza e sicurezza fin dall’inizio, nominando un gastaldo
e un giudice. Per settant’anni i senesi non avevano avuto un vescovo ed ora il
loro vescovo era d’origine longobarda. Il territorio di Pacina e di un’altra
ventina di pievi aretine s’era venuto a trovare sotto la giurisdizione civile
del gastaldo senese.
“Brutta cosa” pensò
ancora Lucio.
La notte trascorse
comunque tranquilla: in fondo erano lì solo per una missione religiosa. Ma poco
prima dell’alba un rumore montante di galoppo ruppe la pace della pieve. Gli
armati uscirono dalle tende senza vestirsi, più incuriositi che allarmati, ma
si trovarono davanti un gruppo di cavalieri tutt’altro che pacifici.
Li comandava un nobile
longobardo, con al fianco un notabile ben vestito: “Sono Taiberto, gastaldo di
Siena, e questi è il giudice Godiberto, cugino del vescovo. Chi vi comanda?”
“Io” rispose il
comandante.
“Siete nel nostro
territorio. Deponete le armi e andatevene”
“Siamo di scorta al
vescovo in visita pastorale” spiegò il comandante indicando Luperziano.
“Rendetegli il dovuto omaggio”
“Riconosco soltanto il
vescovo Adeodato di Siena e vi ripeto l’ordine: lasciate subito il nostro
territorio”.
Il comandante rivolse
un lieve inchino a Luperziano: “Rientrate in chiesa, mio signor vescovo” disse.
“Qui ci pensiamo noi”.
Non c’era tempo per
montare a cavallo, ma lo spiazzo non era vasto e per di più ingombro di tende.
Intorno s’era adunata gente e altri continuavano ad arrivare per l’omaggio al
vescovo. In breve i senesi si trovarono circondati da una folla ostile.
“Romani spocchiosi”
intervenne il giudice, “la vostra potenza s’è sgretolata. Qui vige da tempo la
legge longobarda, nessuno ve l’ha detto?”
“Barbari ignoranti”
rispose Lucio per tutti.
“Ma forti e vincenti!”
il gastaldo gonfiò il petto. “Guardatevi, spada in pugno ma con le sole braghe
addosso”. I suoi risero. Lui ripeté: “Andatevene!”
“Andatevene voi!” gridò Lucio.
Uno dei cavalli s’agitò
gettando a terra alcune donne: fu la scintilla. S’accese lo scontro. I senesi
provarono a manovrare le cavalcature ma gli aretini si mossero rapidi e li
tirarono giù dalle selle, ingaggiando serrati corpo a corpo. I fedeli
arretrarono ma qualche contadino prese a colpire i senesi coi bastoni.
Solo il giudice e il
gastaldo erano rimasti in sella, ma la loro situazione si fece subito precaria.
Lucio puntò la spada contro il giudice Godiberto e il cavallo, impaurito,
scartò varie volte. Alla fine s’inalberò, disarcionando il notabile. L’impatto
col terreno fu tremendo e le zampe dell’animale gli furono fatali: calpestato
più volte, il giudice rimase in terra esanime.
“Basta!” urlò il
gastaldo inferocito. “Ce ne andiamo ma conoscerete la nostra vendetta!”
Il comandante aretino
diede ordine di fermarsi. Non si contarono altri morti, quel giorno, ma diversi
armati sanguinavano copiosamente. Lucio si teneva l’avambraccio sinistro
colpito di striscio da un fendente. I senesi risalirono in sella e se ne andarono
portandosi via il corpo del giudice.
“Viva!” gridarono gli
aretini, “San Donato! Luperziano! Arezzo!”
“Viva!” gridò la gente,
e si accalcò per entrare in chiesa.
“Torneranno” disse il comandante, e fu facile profezia.
Due giorni dopo i
senesi tornarono con un vero e proprio esercito, e li comandava il vescovo
Adeodato in persona. Stavolta Luperziano impedì uno scontro che sarebbe stato
impari. Salutò il presule senese: “Salve, Adeodato, che Dio sia con te”
“Vattene!” fu la brusca
risposta, “Pacina da oggi è senese, e con lei le altre pievi che si trovano
sotto il gastaldato senese”
“Non sarà la forza a
vincere” replicò Luperziano, “la chiesa di san Donato farà valere i suoi diritti”.
Sotto lo sguardo dei
senesi smontarono con calma le tende e presero la via del ritorno, dopo aver
caricato le offerte sul carro. Adeodato però li fermò: “Lasciate qui le
offerte”.
La folla rumoreggiò e
si mise tra i due vescovi.
“I fedeli ti hanno
risposto per me” affermò Luperziano con fermezza. Tracciò un segno di croce
sulla gente e un altro verso la pieve, e diede l’ordine di partire. “Oggi è un
giorno molto triste, per la chiesa di Dio” disse come tra sé.
Per via Lucio e gli
altri discutevano sulla necessità di armare un esercito e muovere guerra contro
Siena, ma Luperziano li zittì: “Come ho già detto, non sarà la forza a
vincere”.
Tornati a Pionta,
denunciò la prepotenza al re Liutprando. Ovviamente ci vollero anni. Nel 714 il
maggiordomo di Liutprando aprì un’inchiesta ed emise sentenza a favore di
Arezzo. Il 6 di marzo dell’anno successivo lo stesso re, con un precetto dato
da Pavia, confermò la sentenza: il re dei longobardi dava ragione ai romani spocchiosi.
Non bastò: Adeodato
fece appello e Liutprando mandò ad Arezzo il suo messo Gunteram per una nuova
inchiesta. Poi fu necessario riunire un collegio di vescovi ed infine, il 14 di
ottobre dell’anno domini 715 un secondo precetto di Liutprando confermò i buoni
diritti del vescovo di Arezzo. A Pionta si fece una grande festa.
Ogni volta che il
vecchio Lucio ripensava a quei fatti, finiva per chiudere gli occhi e
sorridere.
Lo stesso fece in
quella fine di giugno del 774, ma un clamore crescente lo riscosse: grida di festa
sulla via. Aprì le imposte e s’affacciò.
“Viva!” gridava la
folla.
“Che succede?”
“Carlo Magno è entrato
in Pavia! Desiderio è stato fatto prigioniero! Il dominio dei longobardi è
finito!”
Lucio pianse di gioia.
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