venerdì 25 settembre 2020

SCONTRO ALLA PIEVE - racconto


Dopo due lunghi secoli la gente s’era ormai abituata ai longobardi. Tutti tranne Lucio, che li odiava per la loro protervia e il disprezzo che mostravano nei confronti dei romani come lui, superiori per cultura, storia e tradizioni, ma irrimediabilmente sconfitti dalla storia, e li odiava perché non vedeva chi potesse rovesciare il loro dominio. Anche Dio, pensava, come aveva potuto permettere che prevalessero loro? E la stessa chiesa, come s’era fatta raggirare dalla loro falsa conversione? Non erano altro che barbari pagani e tali restavano.

Era vero, accidenti, che la pace, imposta alle loro regole, reggeva ormai da decenni e alla gente poco importava chi fosse il padrone di turno, purché permettesse loro di sfamare le famiglie. Ed era vero che ad Arezzo la chiesa non s’era mostrata poi così arrendevole: aveva preso le difese dei deboli e era l’unica forza in grado di contrastare i dominatori. Per questo Lucio s’era deciso ad arruolarsi tra gli armati del vescovo. Era un giovane forte, allora, maneggiava la spada con abilità e questo gli avrebbe attirato il rispetto di tutti e magari avrebbe potuto anche far carriera.

Nell’anno della salvezza 774 Lucio era ormai vecchio, ma non si era mai pentito della sua scelta: non aveva fatto carriera, ma difendendo la cittadella di Pionta, sede della cattedrale, s’era sentito ogni giorno baluardo contro lo strapotere longobardo. Nella sua lunga vita ne aveva serviti cinque, di vescovi, ma la sua memoria tornava sempre al primo di loro, Luperziano, un po’ perché il nome gli ricordava i fasti dell’antica Roma, un po’ perché era stato eletto proprio nell’anno 711, o forse l’anno dopo, non ricordava bene, comunque nella stessa primavera in cui lui aveva preso servizio. E s’era trovato subito a doverlo difendere.

All’alba d’una luminosa giornata d’inizio estate, dopo che Luperziano ebbe pregato sulla tomba di san Donato, il drappello di armati di cui faceva parte Lucio lo scortò a visitare alcune pievi della diocesi. Le strade all’epoca erano pessime, ridotte per lunghi tratti a poco più che mulattiere sconnesse, e capitava di cavalcare per un’intera giornata senza vedere persona viva.

Impiegarono un paio di settimane per arrivare a Pacina, nella Berardenga, dopo essersi fermati alla pieve di Agnano, a quella del Presciano e infine a Santa Maria di Altaserra. Ad ogni sosta accorreva gente a rendere omaggio al vescovo. Ognuno portava la propria offerta e i presbiteri vi aggiungevano il loro contributo annuale. Si fermavano tre o quattro giorni ed ogni mattina Luperziano cantava una messa solenne. Prima di ripartire impartiva la cresima ai giovani battezzati e lasciava al pievano le sue raccomandazioni scritte. I fedeli sapevano di dipendere dal vescovo per la salvezza dell’anima ma anche per la vita terrena, e a lui si rivolgevano per dirimere controversie civili e per far punire reati penali.

La visita pastorale alla pieve di Pacina cominciò sotto i migliori auspici: li accolse il profilo massiccio, quasi quadrato, della chiesa. Niente restava del tempio romano al dio Bacco, e pochissimo dell’antico abitato: qualche povera capanna e la casa in pietra dove i presbiteri facevano vita comune. Come sempre il comandante li fece accampare sullo spiazzo davanti alla facciata, e il giorno dopo cominciò il pellegrinaggio dei fedeli e la raccolta delle offerte. Stranamente, però, a sera non s’era presentato nessuno a perorare cause civili né a denunciare reati. La stranezza si ripeté il secondo giorno e Lucio, dopo aver consumato la cena intorno al fuoco, ne chiese il motivo al comandante.

“E che ne so, io!” rispose brusco. “I preti mica me le dicono, queste cose. Se però vuoi il mio parere, è colpa dei senesi”.

“E quindi dei longobardi” pensò Lucio senza dirlo.

I longobardi s’erano installati a Siena con forza e sicurezza fin dall’inizio, nominando un gastaldo e un giudice. Per settant’anni i senesi non avevano avuto un vescovo ed ora il loro vescovo era d’origine longobarda. Il territorio di Pacina e di un’altra ventina di pievi aretine s’era venuto a trovare sotto la giurisdizione civile del gastaldo senese.

“Brutta cosa” pensò ancora Lucio.

La notte trascorse comunque tranquilla: in fondo erano lì solo per una missione religiosa. Ma poco prima dell’alba un rumore montante di galoppo ruppe la pace della pieve. Gli armati uscirono dalle tende senza vestirsi, più incuriositi che allarmati, ma si trovarono davanti un gruppo di cavalieri tutt’altro che pacifici.

Li comandava un nobile longobardo, con al fianco un notabile ben vestito: “Sono Taiberto, gastaldo di Siena, e questi è il giudice Godiberto, cugino del vescovo. Chi vi comanda?”

“Io” rispose il comandante.

“Siete nel nostro territorio. Deponete le armi e andatevene”

“Siamo di scorta al vescovo in visita pastorale” spiegò il comandante indicando Luperziano. “Rendetegli il dovuto omaggio”

“Riconosco soltanto il vescovo Adeodato di Siena e vi ripeto l’ordine: lasciate subito il nostro territorio”.

Il comandante rivolse un lieve inchino a Luperziano: “Rientrate in chiesa, mio signor vescovo” disse. “Qui ci pensiamo noi”.

Non c’era tempo per montare a cavallo, ma lo spiazzo non era vasto e per di più ingombro di tende. Intorno s’era adunata gente e altri continuavano ad arrivare per l’omaggio al vescovo. In breve i senesi si trovarono circondati da una folla ostile.

“Romani spocchiosi” intervenne il giudice, “la vostra potenza s’è sgretolata. Qui vige da tempo la legge longobarda, nessuno ve l’ha detto?”

“Barbari ignoranti” rispose Lucio per tutti.

“Ma forti e vincenti!” il gastaldo gonfiò il petto. “Guardatevi, spada in pugno ma con le sole braghe addosso”. I suoi risero. Lui ripeté: “Andatevene!”

 “Andatevene voi!” gridò Lucio.

Uno dei cavalli s’agitò gettando a terra alcune donne: fu la scintilla. S’accese lo scontro. I senesi provarono a manovrare le cavalcature ma gli aretini si mossero rapidi e li tirarono giù dalle selle, ingaggiando serrati corpo a corpo. I fedeli arretrarono ma qualche contadino prese a colpire i senesi coi bastoni.

Solo il giudice e il gastaldo erano rimasti in sella, ma la loro situazione si fece subito precaria. Lucio puntò la spada contro il giudice Godiberto e il cavallo, impaurito, scartò varie volte. Alla fine s’inalberò, disarcionando il notabile. L’impatto col terreno fu tremendo e le zampe dell’animale gli furono fatali: calpestato più volte, il giudice rimase in terra esanime.

“Basta!” urlò il gastaldo inferocito. “Ce ne andiamo ma conoscerete la nostra vendetta!”

Il comandante aretino diede ordine di fermarsi. Non si contarono altri morti, quel giorno, ma diversi armati sanguinavano copiosamente. Lucio si teneva l’avambraccio sinistro colpito di striscio da un fendente. I senesi risalirono in sella e se ne andarono portandosi via il corpo del giudice.

“Viva!” gridarono gli aretini, “San Donato! Luperziano! Arezzo!”

“Viva!” gridò la gente, e si accalcò per entrare in chiesa.

“Torneranno” disse  il comandante, e fu facile profezia.

Due giorni dopo i senesi tornarono con un vero e proprio esercito, e li comandava il vescovo Adeodato in persona. Stavolta Luperziano impedì uno scontro che sarebbe stato impari. Salutò il presule senese: “Salve, Adeodato, che Dio sia con te”

“Vattene!” fu la brusca risposta, “Pacina da oggi è senese, e con lei le altre pievi che si trovano sotto il gastaldato senese”

“Non sarà la forza a vincere” replicò Luperziano, “la chiesa di san Donato farà valere i suoi diritti”.

Sotto lo sguardo dei senesi smontarono con calma le tende e presero la via del ritorno, dopo aver caricato le offerte sul carro. Adeodato però li fermò: “Lasciate qui le offerte”.

La folla rumoreggiò e si mise tra i due vescovi.

“I fedeli ti hanno risposto per me” affermò Luperziano con fermezza. Tracciò un segno di croce sulla gente e un altro verso la pieve, e diede l’ordine di partire. “Oggi è un giorno molto triste, per la chiesa di Dio” disse come tra sé.

Per via Lucio e gli altri discutevano sulla necessità di armare un esercito e muovere guerra contro Siena, ma Luperziano li zittì: “Come ho già detto, non sarà la forza a vincere”.

Tornati a Pionta, denunciò la prepotenza al re Liutprando. Ovviamente ci vollero anni. Nel 714 il maggiordomo di Liutprando aprì un’inchiesta ed emise sentenza a favore di Arezzo. Il 6 di marzo dell’anno successivo lo stesso re, con un precetto dato da Pavia, confermò la sentenza: il re dei longobardi dava ragione ai romani spocchiosi.

Non bastò: Adeodato fece appello e Liutprando mandò ad Arezzo il suo messo Gunteram per una nuova inchiesta. Poi fu necessario riunire un collegio di vescovi ed infine, il 14 di ottobre dell’anno domini 715 un secondo precetto di Liutprando confermò i buoni diritti del vescovo di Arezzo. A Pionta si fece una grande festa.

Ogni volta che il vecchio Lucio ripensava a quei fatti, finiva per chiudere gli occhi e sorridere.

Lo stesso fece in quella fine di giugno del 774, ma un clamore crescente lo riscosse: grida di festa sulla via. Aprì le imposte e s’affacciò.

“Viva!” gridava la folla.

“Che succede?”

“Carlo Magno è entrato in Pavia! Desiderio è stato fatto prigioniero! Il dominio dei longobardi è finito!”

Lucio pianse di gioia.

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