Erano almeno due settimane che pioveva sulle stradette fangose della cittadella di Pionta. Sul colle, poco più in alto della cattedrale, si nascondeva tra le case un minuscolo oratorio dai muri sbreccati e le pietre mal connesse, eretto nel IV secolo, almeno così si diceva, dal vescovo Gelasio sulla tomba di san Donato.
Da metà pomeriggio finalmente la pioggia era cessata, e quella notte, la notte tra il venerdì 10 e il sabato 11 di novembre del 1032, cinque vescovi, due operai e il marchese di Toscana entrarono nell’oratorio. Altri rimasero fuori per mancanza di posto.
Alla luce dell’unica torcia apparve un
sarcofago protetto da una triplice difesa, costituita da una grata di ferro e
ben due robuste catene. Teodaldo ne possedeva le chiavi, conservate nel tesoro
del vescovado. Ci volle un po’ per trovare la giusta toppa, e un altro po’ per
sbloccare le serrature ferme da così tanto tempo. L’umidità della notte s’era
insinuata nella stanzetta e a stento la torcia si manteneva accesa.
Ad un cenno del vescovo, fu rimosso il
coperchio. Nessuno fiatava, ma tutti si sporsero per vedere. Teodaldo sollevò con cautela il telo di lino
ingiallito che copriva i resti, e scoprì uno scheletro brunito dal tempo, quasi
completo ma composto in modo a dir poco insolito.
Gli altri vescovi emisero mormorii di
meraviglia: la testa, o per meglio dire il cranio, non stava adagiato sul
collo, bensì sul petto, cioè appoggiato sopra lo sterno e tenuto dal morto con
le due mani, le quali a loro volta erano prive delle falangi, che giacevano
disarticolate ai lati del torace.
Si sapeva che san Donato era stato
decapitato in prigione sotto l’imperatore Diocleziano, il 7 di agosto del 304,
e lo scheletro che avevano davanti agli occhi rappresentava per i vescovi la
conferma certa di quel martirio. Caddero in ginocchio, mentre Teodaldo
proseguiva la ricognizione dei sacri resti. Sul fianco destro rinvenne
un’antica patena di vetro, e dal lato opposto estrasse un calice di squisita
fattura.
Non sembrava esserci altro, e così si
diede ad avvolgere la salma in un preziosissimo telo di bisso e ostro, facendosi
aiutare dal vescovo di Fiesole. Fu a quel punto che la sua mano, passando sotto
le scapole, avvertì qualcosa di duro, e però liscio e squadrato. Chiese l’aiuto
degli altri e lentamente, ponendo la massima attenzione per non danneggiare il
santo, tirarono fuori una piccola lapide che portava incisa la scritta:
hic est sanctus donatus, æpiscopus et martyr xsti
Quelli rimasti fuori, per tentar di
vedere, infilarono tutti insieme le teste nel vano dell’usciolo.
La commozione rigò di lacrime le guance
scavate di Teodaldo, che poi, quando si fu ripreso, intonò una preghiera: Gaude et lætare, civitas aretina, quia
thesaurum invenisti… Poi i vescovi sollevarono delicatamente lo scheletro
avvolto nel nuovo panno color del martirio e lo adagiarono sopra un’asse di
legno grezzo.
Il marchese non si trattenne. Afferrò la
lapide e corse fuori gridando: «Guardate! Guardate! È davvero san Donato!» Tanto
fu lo strepito che gli abitanti della cittadella di Pionta cominciarono a
svegliarsi, e accorsero chiedendo cosa fosse. Intanto i vescovi, cantando il Te Deum, s’erano messi in processione, e
le spoglie terrene di san Donato furono condotte in cattedrale e depositate sopra un catafalco
predisposto davanti all’altar maggiore. La lapide con la scritta venne piazzata
ai piedi del santo, in bella vista.
All’esterno il vocio cresceva col numero
delle persone, e la notte, sulla quale erano tornate a brillar le stelle,
s’illuminò anche di decine di torce. Poi accadde l’imprevisto.
Il clamore, salito via via di tono,
raggiunse i mercanti che dormivano sui loro carri fuori della cinta muraria,
sulla via che scendeva in città. Quelli, svegliati di soprassalto, domandarono
a gran voce cosa stesse succedendo, e di qua dalla porta chiusa si rispose, e
di là chiesero che venisse aperto, e di qua si disse all’alba, come al solito.
Allora qualcuno corse alla città a
riferire della traslazione notturna, e il popolo si mosse.
«Monsignore!» gridò il comandante della
guarnigione entrando in chiesa trafelato. «Una gran folla s’è adunata alla
porta, una folla mai vista. La città intera preme per entrare»
«Aprite, dunque!» ordinò Teodaldo, ma
non fecero in tempo.
L’ansia della folla, impaziente di veder
le spoglie del suo protettore, non attese. A colpi d’ascia e di mazza i
battenti furono scardinati, la porta abbattuta, e il popolo sgomitando si
riversò nella cittadella.
Teodaldo uscì sul sagrato e si parò
davanti a loro: «Sono commosso dalla vostra fede!» gridò per farsi udire anche
dai più lontani. «Il nostro patrono si offre alla vostra venerazione e alle
preghiere di ognuno di voi, ma se volete essere ascoltati, entrate in fila
ordinata e assoluto silenzio!»
Le campane suonarono il Mattutino e la
cittadella tornò, se non silenziosa, almeno più calma. Ma com’è? chiese uno. Ha
la testa sul petto. Come? Sul petto! Sul petto? Eh, sul petto. Si formò una
fila ubbidiente e devota. La processione incessante andò avanti per il resto
della notte e l’intera giornata del sabato, e chi ne usciva ripeteva: Ha la testa
sul petto.
Nessuno, a Pionta si ricordò che quel
sabato era l’11 di novembre, festa di san Martino: a tutti pareva che quella
breve, tiepida estate, fosse un altro dei miracoli di san Donato per la sua
città.
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