La nostra storia comincia a Arezzo un paio d'anni prima della battaglia, in una fumosa taverna.
Nella taverna del
Calderaio
B
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ibit ille,
bibit illa! declamò uno studente ubriaco
alzando la coppa e fissandola con occhi lucidi.
Bibit servus cum ancilla! gli fece eco un coro di giovani
suoi pari. In mezzo al gruppo una compiacente fanciulla li esortava a bere e li
gratificava di carezze, mentre le rime si scioglievano in risate e libagioni.
Lo
stanzone dalle volte in laterizio, posto tre scalini sotto il livello della
via, era pieno di gente. Fuori l’aria fresca avrebbe reso piacevole il
passeggio, mentre nel locale il fumo della legna bruciata nel camino si
mescolava all’odore della zuppa di cavoli che bolliva nel calderone e ai fiati
dei giocatori di carte. La luce delle candele agitava ombre sui muri ad ogni
aprir dell’uscio.
Eppure
nessuno pareva scontento o pensava ad uscire.
La
taverna, una delle tante in Arezzo, esponeva una scolorita insegna di legno
quasi in fondo alla contrada di San Piero, proprio accanto alle caldere che le
davano il nome.
Era
il ritrovo preferito della gente più varia, che apprezzava il vino quasi sempre
genuino e la rozza cordialità della locandiera.
Donna
Vigna, come la chiamavano per il vezzo di dire, mescendo, questo è di vigna!, era un donnone già oltre i quaranta, dai modi
spicci e la voce roca, pronta a rimbeccare le battute scurrili degli ospiti più
grezzi, ma paziente con loro più che non lo fosse col marito.
Costui,
per parte sua, non era meno grosso, con due braccia che promettevano botte ai
malintenzionati. La natura, però, gli aveva lesinato l’intelletto, facendolo
docile servo degli ordini della moglie. L’accorta locandiera teneva a pigione
tre o quattro puttane per attirar clienti, e lasciava che li adescassero nel
locale, ma le spediva ad offrire i loro servigi in un vicino bordello per non
aver noie coi preti o col Capitano di Giustizia.
Dava
da dormire ai forestieri in due camere, una per gli uomini e l’altra per le donne,
più che altro per aggirar le bolle comunali sull’orario di chiusura, e
d’altronde bastava una botticella di vino mandata all’indirizzo giusto, per
tener lontani i controlli.
«A
chi non piace il vino, Dio gli tolga l’acqua» era solita dire ai pochi che
chiedevano alloggio senza bere. Si faceva pagare prima di mescere e non
prendeva parte alle discussioni, soprattutto a quelle, ed erano le più, dove si
tirava in ballo il Vescovo o si malediva la protervia dei nobili.
Del
resto, esponenti del clero e del ceto nobiliare erano lì anche quella sera, a
divertirsi mescolati a manovali e maestranze, ai capimastri e ai carpentieri,
ai fabbri e ai numerosi studenti.
Mauro
dei Mauri, un ragazzone robusto dalla pelle insolitamente scura, sedeva ad un
tavolo vicino al camino con suo padre Pietro e l’amico di lui, Giunta dei
Ricoveri, che bevevano discorrendo del caldo, dei raccolti e della guerra contro
Firenze. Il giovane però non ascoltava i loro discorsi: la sua attenzione s’era
rivolta da un po’ ad un altro avventore, che stava tutto solo in un angolo.
Gli
occhi fissi alla punta delle pianelle, Boso degli Azzi cercava nel boccale la
serenità perduta anni prima tra le absidi del Duomo Vecchio, al colle del
Pionta.