di Pierluigi Licciardello, storico, esperto di agiografia e di storia medievale, docente universitario.
in "Notizie di Storia", periodico della Società Storica Aretina, n. 52, dicembre 2024.
L’ultimo lavoro di Nanni d’Arezzo (alias Nanni Cheli, alias Giovanni Cheli), scrittore noto per i suoi racconti di ambientazione aretina, si presenta formalmente come un romanzo storico, ma si potrebbe anche dire una biografia romanzata per il forte carattere documentario che sottostà alla narrazione. È la biografia di Guido Monaco, il famoso monaco dell’anno Mille studioso di musicologia, chiamato anche Guido d’Arezzo proprio perché in questa città, al tempo del vescovo Teodaldo (1023-1036), visse e produsse i suoi studi più importanti.
La qualità storica di questo libro ci spinge a presentarlo in “Notizie di Storia”, una rivista dedicata agli
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Guido Monaco presenta il monocordo al Vescovo Teodaldo - miniatura del XII sec. Biblioteca Nazionale di Vienna |
Il libro è articolato in tredici capitoli, che cominciano e finiscono, come in una ‘composizione ad anello’, nel monastero aretino di Santa Fiora (ovvero delle SS. Flora e Lucilla, sulla collina di Olmo, oggi distrutto) nell’anno 1077. È qui infatti che un monaco-narratore, che rimane per noi anonimo, apre e chiude il suo racconto retrospettivo: un flashback di ricordi che richiama alla mente il monaco Adso, voce narrante de Il nome della rosa di Umberto Eco. Nel racconto retrospettivo incontriamo così il giovane Guido, prima novizio e poi monaco professo, nel prestigioso monastero di S. Maria a Pomposa, presso Ravenna.
Non sappiamo nulla di sicuro sulla sua provenienza, e questo permette all’autore, opportunamente, di non prendere posizione sulla vexata quaestio se fosse nato in territorio aretino o ravennate. Una questione controversa che si gioca su alcune parole della Epistola di Guido al monaco Michele di Pomposa e sulle tradizioni locali fiorite sull’uno e sull’altro versante dell’Appennino.
Presto il giovane monaco scopre la sua vocazione di studioso di musica. La sua libertà intellettuale e le sue proposte innovative nel campo della didattica lo portano a scontrarsi con i vecchi monaci pomposiani, in particolare con il maestro cantore Severo. L’idea di Guido è di superare l’insegnamento tradizionale delle melodie, basato sulla memoria, con mezzi nuovi e più efficaci, fondati sulla scrittura della notazione musicale. Un’intuizione geniale che permetterà non solo di abbreviare i tempi dell’apprendimento, ma anche di rendere il repertorio musicale universale e uniforme, superando il problema storico della frammentazione dell’insegnamento in una miriade di scuole monastiche e vescovili, alla mercé di maestri gelosi del loro sapere.
Opportunamente, inoltre, Cheli collega il tema della riforma musicale al tema della riforma della Chiesa, che nei decenni centrali del secolo XI portò all’acquisizione, da parte del papato romano, di un’inedita centralità come guida della Chiesa occidentale, mentre la vita ecclesiastica veniva stravolta con la lotta contro la simonia (ossia la compravendita delle cariche ecclesiastiche) e contro il nicolaismo (ossia il concubinato dei sacerdoti).
La netta chiusura dell’ala tradizionalista di Pomposa esprime la volontà dei cantori di conservare il proprio potere, fondato sulla trasmissione elitaria e magistrale del sapere, ma dietro le novità didattiche si agita anche lo spettro della riforma del monastero, perché i giovani vorrebbero un’osservanza più rigida della regola benedettina e della libertà della Chiesa, un tema delicato in un’abbazia filoimperiale strettamente legata all’arcivescovo ravennate. Una libertà che culmina, appunto, nel papato, vertice e guida di una Chiesa separata dai poteri secolari: Guido “sembrava cosciente (…) che una liturgia universale significava una Chiesa universale e universalmente soggetta al papa, vicario di Cristo in terra”, scrive l’autore (p. 248).
Sostenuto da un esile gruppo di suoi coetanei e amici, Guido prima è isolato, poi costretto ad abbandonare il monastero. A nulla serve la mediazione del grande abate Guido di Pomposa (impropriamente detto “Guido degli Strambiati”), omonimo del musicologo, che si lascia persuadere dalle accuse infamanti dei monaci anziani contro i giovani. E l’‘invidia’ dei vecchi conservatori contro il giovane innovatore è un tema che dominerà la vita di Guido, a Pomposa come ad Arezzo, come un leit-motiv ricorrente.
Così Guido si trasferisce ad Arezzo. Qui, nella cittadella vescovile di Pionta, avviene l’incontro con il vescovo aretino, l’energico Teodaldo di Canossa, che lo vuole con sé come maestro di canto e di Sacra Scrittura, nonché come suo braccio destro nella riforma della Chiesa aretina. Guido è un monaco, votato ad una religiosità ascetica e severa, ma è aperto alle novità culturali del suo tempo e diventa protagonista di un’intensa stagione di rinnovamento culturale, in un ambiente polarizzato tra un vescovo dinamico, e aperto alle novità, e un gruppo di vecchi canonici conservatori, che si arrocca sulla difesa dei propri privilegi tradizionali. Siamo dunque, di nuovo, in una situazione conflittuale simile a quella che Guido aveva vissuto a Pomposa.
Ma stavolta al suo fianco c’è Teodaldo, che così, nella felice sintesi di Cheli, in un breve discorso chiede a Guido e a pochi uomini di fiducia di aiutarlo nell’opera di riforma: “Vogliamo che a Pionta si sappia cantare, e anche redigere un documento, articolare un’omelia, mettere su pergamena dei concetti chiari, far uscire dalla penna d’oca una grafia ben leggibile. Siete con me?” (p. 146).
Troviamo così il monaco partecipare ai grandi eventi storici che hanno caratterizzato l’episcopato di Teodaldo: la fondazione dell’eremo di Camaldoli, nell’alto Casentino, d’intesa con san Romualdo di Ravenna (siamo intorno al 1024); la contesa con Siena per la questione delle pievi di confine tra le due diocesi, vinta da Teodaldo contro il vescovo senese; la lotta contro i custodi della chiesa cattedrale aretina di S. Maria a Pionta, dediti a furti e vessazioni contro i pellegrini; la nascita di una scuola di scrittura e di un archivio, ad opera dell’archivista Gerardo Primicerio, a cui seguirà una generazione di giovani notai vescovili; la solenne traslazione delle reliquie di san Donato dall’antica cappella martiriale nella nuova chiesa appena edificata in solenni forme romaniche (il “Duomo Vecchio” di Pionta). Quest’ultimo evento, nel 1032, è l’apoteosi del progetto di riforma di Teodaldo e rappresenta l’unione tra il popolo cittadino e la sua Chiesa, uniti nella memoria del santo patrono.
Dopo la morte di Teodaldo (intorno al 1036), Guido parte da Arezzo facendo perdere le sue tracce: ancora un modo elegante per non entrare nel problema biografico degli ultimi anni di Guido, irrisolto e irrisolvibile per la mancanza di fonti documentarie.
La biografia di Guido Monaco è ricostruita con grande correttezza storica e con pochi cedimenti alla fantasia, pur necessari per vivacizzarla dal punto di vista narrativo e per permetterci di seguirla nel modo più lineare possibile. Una biografia che diventa anche uno spaccato del mondo monastico medievale, in un fitto intreccio di temi: il lettore così entra nella vita quotidiana di un grande monastero benedettino dell’anno Mille, una vita di preghiera e di canto sacro, ma anche di conflitti e di invidie, di conversazioni e di svaghi, fino ai suoi dettagli più nascosti, come l’alimentazione e le dure punizioni per le infrazioni alla regola. Tocca poi con mano, anche attraverso la citazione dentro il testo di brani d’autore, come si insegnava il canto gregoriano ai giovani cantori (ad es. le pp. 160-162 sul monocordo, 236-238, 244-246, 272-273 sulla scala musicale ut-re-mi-fa-sol-la). Il monachesimo che emerge da queste pagine è un fenomeno storico ‘totale’, intorno al quale si addensano vita quotidiana, storia politica, cultura e letteratura. L’autore coglie anche il complesso rapporto del monachesimo con la società, giocato tra i due poli della fuga dal mondo e dell’interesse mondano, tra la vita di penitenza (ascetica) e gli intrecci con la politica. Vediamo così agire pro o contro il monastero i patroni laici di Pomposa, soprattutto Bonifacio di Canossa, conte di Mantova e di Modena, e i signori ecclesiastici, come l’arcivescovo Eriberto di Ravenna, che ad un certo punto muove in armi contro Pomposa prestando fede alle voci diffamatorie sul conto dei monaci.
Infine, nel racconto del 1077 entrano dentro le mura del chiostro i grandi temi della riforma gregoriana e della lotta per le investiture, combattuta tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV.
Un lettore attento potrà rintracciare, dietro la narrazione, una trama di fonti non dichiarate, ma correttamente utilizzate. Anzitutto le opere di Guido Monaco, nella edizione-traduzione curata da Angelo Rusconi nel 2005, con alcuni brani in traduzione posti in apertura di ciascun capitolo; la sua lettera all’arcivescovo Ariberto di Milano contro la simonia (pp. 316-319); la Translatio delle reliquie di san Donato, testo della fine del secolo XI che narra le vicende di Pionta nel novembre del 1032 (pp. 283-301); la Vita della contessa Matilde di Canossa, scritta dal monaco Donizone intorno al 1115, da cui proviene un efficace ritratto del vescovo Teodaldo, amante della castità e intimamente convinto della necessità di purificare la Chiesa dai mali che la affliggono (pp. 196-200, 306); la Cronaca aretina dei custodi, che narra i tentativi di riforma di Teodaldo contro il degrado di Pionta (pp. 308-310); i documenti d’archivio aretini, come la donazione di Teodaldo a Camaldoli nel 1033 (pp. 310-314).
Dove le fonti non arrivano, arriva l’invenzione del romanziere, ma senza stravolgere la realtà. Sono efficaci alcuni ritratti fisici, che fissano con poche pennellate i volti dei protagonisti, come quello di san Romualdo (p. 140) e di Teodaldo (p. 200). Vivaci sono poi le descrizioni di alcuni luoghi, come le saline presso Ravenna, la cittadella vescovile di Pionta, con il suo via vai di persone, il mercato, i custodi truffaldini che si approfittano delle offerte.
Quanto a Guido, il suo personaggio letterario emerge per il carattere determinato, per la curiosità intellettuale e la generosità umana. Non è monolitico, ha dubbi e cedimenti che lo rendono umano.
Soprattutto a Pomposa è tormentato dall’idea – molto moderna – del fallimento esistenziale: “Guido col suo spirito eremitico, la sua vocazione allo studio, l’accettazione di ogni penitenza e la purezza degli ideali, se pure lui era preda del dubbio e si rassegnava all’impotenza (…) Siamo sicuri che questa sia la vera via alla perfezione, o non si tratta piuttosto di semplice e drammatica rinuncia alla vita? Che ci stiamo a fare qui?” (p. 41).
I suoi avversari, al contrario, sono descritti come ottusi e gretti, miopi prigionieri di inerzia e di invidia. Si veda il personaggio del cantore Severo, l’antagonista di Guido, che però si riscatta – letterariamente – da una durezza forse eccessiva tenendo un lucido discorso sui pericoli che le novità nell’insegnamento potrebbero portare in una tradizione ecclesiastica fondata sul senso di autorità (pp. 276-280): un discorso che ricorda da vicino quello tenuto da padre Jorge da Burgos, ne Il nome della rosa, contro il pericolo del riso e del sovvertimento dei valori tradizionali.
Non compete a noi giudicare il valore letterario del libro, ma, a nostro parere, Maledetta invidia è scritto in modo scorrevole e chiaro, e presenta con efficacia dei temi complessi, che spesso sono rimasti in ombra per la difficoltà di trovare un linguaggio adatto a farli uscire dalla cerchia ristretta della ricerca specialistica. La coraggiosa scelta di Cheli, di presentarli nella forma del romanzo, costituisce una sfida che, ci auguriamo, il pubblico saprà apprezzare, ed è un ottimo esempio di seria divulgazione storica.
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