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Il
25 di marzo era un venerdì sereno e luminoso. Il cielo era striato da nuvole
bianche che la brezza concentrava a tratti per poi stirarle in filamenti
sottili. La pioggia aveva sciolto i residui cumuli di neve e l’erba donava un
nuovo verde ai prati, punteggiati di margherite e primule. Sui rami le prime
foglie spingevano impazienti.
L’attesa dell’incontro con la Berta accompagnava
Mauro verso la Pieve di Santa Maria in Classe, distante meno di due miglia
dalla sua Pieve di Santo Stefano.
Bencio
aveva risposto: sia lui che la figlia erano lieti della proposta di matrimonio
e non sarebbero mancati alla festa dell’Annunciazione.
Sui
campi intorno alla Pieve pascolavano tranquilli vitelli mucche e pecore. La
gente faceva calca sul sagrato e lo slargo davanti alla chiesa era tappezzato
di fiori arbusti pianticelle che venditori accaniti proponevano alla folla.
Liuti e tamburelli ritmavano l’allegro vociare mentre un forte odore di cacio e
di strame pungeva le narici.
Mauro
cercò invano la Berta nella ressa, quindi entrò in chiesa e risalì le file di
panche e sedioli scrutando i volti in preghiera. Molti ne riconobbe e salutò,
ma non erano quelli attesi. Tornò fuori. Lo stesso Pietro era perplesso.
Un
vecchio cieco, seduto a chiedere la carità, allungò verso Mauro un braccio
scheletrico: «Nobili signori, un tozzo di pane».
Il
giovane ebbe un gesto spazientito, ma Pietro lo corresse: «Lui non ha colpa se
ritardano» e rivolto al vecchio gli appoggiò una moneta nel palmo della mano.
Il cieco rimase col braccio teso: «Sento apprensione, in voi. Non son tempi
sereni, questi, e dovrete tribolare». Un brivido scosse Mauro.
La
folla continuava ad affluire nel tempio, fino a stiparlo. Il pievano apparve
sulla porta e invitò padre e figlio ad entrare. La funzione doveva cominciare.
Dal suo posto in prima fila Mauro continuava a voltarsi, invano, ripetendo
disattento le formule liturgiche insieme al coro dei fedeli.
Finita
la messa, i sacerdoti e i chierici convenuti si sparsero nei prati a benedire
le greggi e le mandrie, seguiti da frotte di ragazzini e dal fruscio delle
gonnelle materne, mentre gli uomini si riunivano in gruppi, a discutere. Da un
vicino forno bannale si spandeva la fragranza del pane appena cotto.
Verso
mezzogiorno la gente cominciò ad avviarsi verso casa. I vaccari e i pastori
formavano capannelli intorno ai fuochi accesi, da cui giungeva odor di carni
arrosto.
Mauro
non vedeva e non sentiva. Pur disperando ormai di veder comparire l’amata, non
perdeva d’occhio la strada. Non poteva credere ad un ripensamento e continuava
a ripetere: «Dev’esser successo qualcosa».
La
Ilde era rimasta in chiesa a pregare. Pietro non sapeva come calmare il figlio:
«Vedrai che arriveranno. Ci sarà una spiegazione».
«E’
successo qualcosa» insisté il giovane, e come in risposta sulla via di Arezzo,
da una nuvola di polvere che si avvicinava rapidamente, emerse un cavaliere al
galoppo. Era il medesimo messaggero dell’altro giorno, con le insegne di
Campoleone.
Mauro
gli s’attaccò alle briglie e il messo riferì ansimando le novità: «Han chiuso
le porte di Arezzo. È ufficiale, attaccheranno Civitella. Ordine per tutti gli
uomini atti a combattere di presentarsi subito, pena la cacciata dalla città»
«E’
una prepotenza!»
tuonò Pietro, e la gente gli fece spazio. Il messo si rivolse a lui: «Hanno
arrestato mercanti e artigiani che volevano sortir di città. Li sospettano di
combutta col Vescovo. Io son fuori con un lasciapassare dell’Abbazia, e col preciso
ordine di convocar le genti delle cortine».
Guardò
Mauro e s’abbassò sul collo del cavallo: «Fra Giacomo m’incarica di dirvi che
han preso anche Bencio e sua figlia». Poi tornò a parlare con Pietro: «Hanno
concentrato tutti nella piazza di San Salvatore, dentro la Cittadella, e li
tengono lì, all’aperto, da ieri sera. Dice che li processeranno al ritorno da
Civitella». Era sfinito. Finalmente scese da cavallo e accettò dell’acqua.
Un
attimo dopo Pietro e Mauro galoppavano verso la città, seguiti da Oddo. Sulla
porta della chiesa, accanto al pievano, era comparsa la Ilde.
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